1979-2019: The Cure in quarant’anni

Il gruppo guidato da Robert Smith festeggia il traguardo con un regalo ai fans. Fra tanti alti e qualche inciampo…

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Contenere quarant’anni di carriera in un cofanetto di cartone non è da tutti. Ancor meno da tutti è farlo non compiendo una patetica operazione nostalgia da «Greatest hits», tipica di band bollite che vogliono raggranellare gli ultimi soldi della carriera, ma su un palco con concerti da ben più di due ore l’uno. 
È da oggi, 18 ottobre, nei negozi 40 Live – Curaetion-25 + Anniversary, il regalo che i The Cure hanno fatto a loro stessi e a chi li ama per festeggiare, appunto, il quarantesimo anno di carriera. Due concerti registrati nell’estate del 2018, ad Hyde Park e al Meltdown festival a Londra. Due dvd e quattro cd che sono la summa finale e perfetta di una carriera. Due concerti diversissimi tra loro: perché se il primo è stato la vera festa, con il solito concerto-fiume (29 canzoni) e tutti ma proprio tutti i pezzi più celebri – da Just Like Heaven a Friday I’m in Love, da A Forest a In Between Days, da Pictures of You a Boys don’t Cry – beh, il vero regalo è quanto fatto al Meltdown festival: due canzoni per ogni disco pubblicato dal primo all’ultimo. Il modo migliore per capire l’evoluzione delle fasi creative di Robert Smith – voce, mente, corpo, materia, anima, insomma tutto – dei The Cure. Il modo migliore per capire quello che è stato un viaggio senza pari. Il viaggio negli incubi, nei rimpianti, nel dolore, nella malinconia, nell’allegra tristezza, nei sorrisi che a volte nascondono un mondo invisibile.

Una storia di trasformazioni
Quella del gruppo inglese è una storia da romanzo, con il primo capitolo (Three Imaginary Boys; 1979), un post-punk puro, grezzo, disarmonico. Ma nuovo, ce n’era poca di roba così infiammabile in quella galassia che è stata la new wave. Geniale. Talmente geniale, nella sua sfrontata leggerezza, da far capire che percorso sarebbe stato preso da lì a poco. Una strada verso gli inferi. Perché 1980, 1981 e 1982 sono le tre tappe della Via Crucis di Robert Smith e gli anni della «trilogia dark» composta dall’ossessivo Seventeen Seconds, dal gelido Faith e infine dall’apoteosi nichilista e disperata di Pornography. Dischi fatti di incubi, figure che vanno e vengono, proiezioni della mente, autodistruzione e incapacità manifesta di fronteggiare la vita e la quotidianità. Dischi che avrebbero ucciso chiunque – sulle riviste britanniche si definiva Robert Smith come «il prossimo Ian Curtis», cantante suicida dei Joy Division – cui i The Cure sono invece sopravvissuti. 

Dal fondo al cielo (e ritorno)
Ma quando tocchi il fondo l’unico modo di risalire è cambiare tutto, e quando in gioco è la vita di un gruppo che forse ha osato troppo si ribalta il tavolo: sei mesi dopo l’uscita di Pornography le radio passano per la prima volta Let’s Go to Bed, allegrissimo pop anni Ottanta easy-listening. Da lì in poi un susseguirsi di dischi che sempre di più li hanno portati al successo planetario. Con i capelli sparati in aria, il rossetto e il trucco pesante Robert Smith ha virato verso il rock da stadio, verso le ballad strappalacrime, verso il pop ottimo per le radio e le vendite. Con la tristezza che mette solo un clown con la faccia desolata, però. Con l’amore sfuggito dalle mani di Just Like Heaven e la voluttà funky e carnale di Why can’t I Be You nello stesso disco (Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me; 1987) dei sei minuti dark e lancinanti di The Kiss. Con la spensieratezza di Friday I’m in Love che è nello stesso disco (Wish; 1992) del dolore urlato ai quattro venti del brano Cut.

Una vita come tante
Qualcuno sostiene che Smith ci abbia sempre giocato su questa doppia interpretazione. Che lo abbia fatto o no, che nel suo vestire di malinconia e rimpianti anche i momenti allegri sia stato «personaggio» o meno, poco importa. È stato una «cura». Ha fatto sentire a casa, capito, ascoltato chi sorride anche quando è morto dentro. Nel videoclip di Lullaby ha fatto sentire meno solo chi ha così tanti incubi interiori da non sopportare la quotidianità, in quello di Lovesong sdraiato inerme sulle rocce sotterranee è stato l’iconica rappresentazione di chi pensa alla donna che ha amato e che non c’è più. Nelle parole di Open ha spiegato cosa porta una persona a dover stordirsi di alcol per arrivare al giorno dopo, in quelle di The Promise ha cantato dell’amore tradito, delle parole fini a sé stesse, del rimpianto di non aver lottato insieme. E quando ogni tanto arriva qualcosa di bello (perché sì, c’è sempre qualcosa di bello) ha un retrogusto amaro e malinconico lasciato da tutto il dolore vissuto. Chi è in piedi, è davvero in piedi? In questa domanda ci sono 40 anni di carriera dei The Cure. Nella risposta che ognuno di noi dà, c’è la misura della vita.

SETTE TRACCE ‘NON COMPRESE’ (NEL COFANETTO)
In your House (da Seventeen Seconds; 1980) 
Il freddo incedere in un mondo parallelo, nell’altra casa in cui si può nuotare, vivere altre vite, confondersi con altre persone estraniandosi dalla propria. Cambia tutto quando si esce da sé, per sempre.

Charlotte Sometimes (singolo; 1981) 
Incredibilmente (o per fortuna) mai finita in un lp. Sogno o incubo, voci che riecheggiano, visi che scompaiono e tornano. E lei, Charlotte. Quando tutto cade, quando tutto cambia. Charlotte a volte, ma sempre.

Catch (da Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me; 1987)
Il concetto di ‘canzone pop ma signori miei con quanto stile’ in tre minuti spaccati. L’inarrivabile Principessa, l’angelo che cade dal cielo e il tentativo di afferrarla, prenderla, amarla, ancor prima di sapere il suo nome.

Prayers for Rain (da Disintegration; 1989).
La sofferenza dell’abbandono, la colpa autoinflitta di una mancanza che si fa ogni giorno più insopportabile. Il bisogno della pioggia purificatrice, per scacciare fantasmi e sconforto. La catarsi di una storia (in)finita.

A Letter to Elise (da Wish; 1992)
La tipica canzone d’amore con una struttura insolita per i Cure, radiofonica come poche, ma quante lacrime, prima dello straziante assolo, al «ho lasciato andare via il sogno, e rotto la promessa di cui ci eravamo illusi».

Club America (da Wild Mood Swings; 1996).
Testo senza senso e una voce impostata un po’ da crooner, da gigione che si diverte a far saltare il pubblico nella tournée più fallimentare del disco meno venduto. Eppure che capolavoro, che pezzo trascinante.

Bloodflowers (da Bloodflowers; 2000).
Il ritorno ai fiori del male di Disintegration e al dark degli anni ’80. La nevicata soave di petali che grondano sofferenza, di «fiori che non muoiono mai», di fiori d’amore e fiori di sangue, di fiori eterni.

 

 

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