Scrivere: lo stile digitale

‘Tutti possono essere grandi scrittori’. È la promessa ribadita ai propri utenti da una nota applicazione per elaborare testi scritti. Sarà…

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Si narra che Fëdor Dostoevskij, costantemente incalzato dai creditori, quando doveva consegnare i suoi scritti si abbandonasse a febbrili nottate di gioco d’azzardo. Fino a che, perduto tutto e ridottosi alla disperazione, rasentando l’orlo del suicidio, si trascinasse a casa e lì si mettesse a scrivere impetuosamente, in quella sua forma sublime che non lascia scampo, fino all’alba e oltre. Haruki Murakami, invece – autore fra gli altri di Dance Dance Dance e L’uccello che girava le viti del mondo – corre sessanta chilometri alla settimana, sei giorni su sette, «per raffreddare i nervi che si riscaldano durante la scrittura» (da runnersworld.it, 30/7/2017). 

Un aiutino (e qualcosa in più)
La letteratura è una musa esigente che impone ai propri adepti una dura disciplina, quella richiesta dal costruire edifici mentali capaci di sostenersi nella più totale assenza di gravità. Sarà per questo che molti scrittori e scrittrici hanno stili di vita caratterizzati da abitudini più o meno peculiari, come se determinati rituali costituissero una griglia di sicurezza a cui aggrapparsi dopo essersi avventurati nel vuoto. Suggestioni a parte, scrivere è sempre un azzardo (Dostoevskij docet); un’attività praticata in solitaria che comporta invariabilmente il rischio, piccolo o grande, di perdere qualcosa: il filo del discorso o sé stessi, a seconda degli intenti… 
Ho detto «in solitaria»? Da qualche tempo a questa parte, qualcuno suggerisce che non sia più così. Nuove entità appartenenti alla stirpe nascente dell’Intelligenza Artificiale si propongono a chi scrive come amichevoli accompagnatori: sono i processori di testo avanzati, applicazioni come Grammarly, Scrivener o yWriter che non si limitano a segnalare errori ortografici e refusi, ma offrono suggerimenti lessicali e financo stilistici. Queste applicazioni si innestano infatti su piattaforme open source alimentate dagli utenti stessi mentre scrivono. Algoritmi deep learning, capaci cioè di forme d’apprendimento complesse, estrapolano dal materiale accumulato regole compositive che consentono di suggerire una parola al posto di un’altra o una sintassi semplificata invece di una più articolata. Così, Grammarly, il più diffuso attualmente, contempla fra le sue opzioni quella di definire a priori l’obiettivo del testo in rapporto a cinque parametri: intenzione (informare, descrivere, persuadere, raccontare una storia); pubblico a cui ci si rivolge (generale, competente, esperto); stile (formale o informale); tono emotivo (tiepido o «acceso»); ambito (accademico, commerciale, tecnico). Comincia ad apparire inquietante, non è vero?

Copioni o grandi penne?
Fondata dieci anni fa da tre programmatori ucraini, la Grammarly Inc., società detentrice dell’omonima applicazione, ha naturalmente sede nella Silicon Valley. Nel 2017, una cordata d’investitori le ha trasfuso una liquidità pari a centodieci milioni di dollari, segno che i processori di testo «intelligenti» sono considerati strumenti destinati a diffondersi sempre di più. Queste applicazioni si rivelano particolarmente utili nel caso si debba redigere un testo in una lingua che non è quella «nativa» e, considerato che Grammarly è disponibile solo in inglese, molti se ne avvalgono proprio per evitare strafalcioni in tale idioma. Un altro incontestabile pregio del programma è la lodevole funzione anti-plagio – con dolo o inintenzionale che sia – resa possibile dal controllo incrociato di più di 16 miliardi di pagine web. Naturalmente, si può continuare a copiare lo stesso; diventa però più difficile sostenere di non essersene accorti…
Insomma, alcune funzionalità, nello specifico quelle di base, sono senz’altro utili e fanno risparmiare un sacco di tempo. È quando si passa a quelle avanzate – peraltro dietro pagamento di abbonamenti non proprio economicissimi, e Grammerly ha fama di essere piuttosto insistente con i fruitori della versione gratuita – che le cose si complicano. Sul sito dell’applicazione si leggono affermazioni impegnative, tipo: «Tutti possono essere dei grandi scrittori», poiché «dalla grammatica alla sillabazione fino allo stile e all’intonazione, Grammarly ti aiuta a eliminare gli errori e a individuare le parole giuste per esprimerti». 
È interessante notare come tali asserzioni si contrappongano quasi punto per punto al pensiero di chi un grande scrittore lo è stato davvero, ovvero Vladimir Nabokov, che nelle sue Lezioni di letteratura annota: «Lo stile non è uno strumento, né un metodo, né una mera scelta di parole. È molto più di tutto questo, è una componente o una caratteristica intrinseca della personalità dello scrittore. (…) Per questo non credo sia possibile imparare a scrivere narrativa se già non si possiede talento letterario. Solo in questo caso un giovane scrittore può essere aiutato a trovare se stesso, a liberare il linguaggio dai cliché, a eliminare le goffaggini, a sviluppare l’abitudine di cercare con pazienza inflessibile la parola giusta, quell’unica parola giusta in grado di trasmettere con la massima precisione l’esatta sfumatura e intensità del pensiero» (Adelphi 2018, pag. 11).

Lo stile e il rischio della ’purezza‘ 
Quindi, in termini più prosaici: 1) lo stile è la cifra personale di un autore e come tale non può essere «settato» a priori; 2) la ricerca della «parola giusta» costituisce l’essenza dell’attività di scrittura e, sebbene di tanto in tanto sia lecito ricorrere al dizionario dei «sinonimi e contrari», adottare acriticamente un lessico selezionato sulla base di quante persone, in una frase simile, hanno usato un certo termine equivale a preparare un piatto con tutti gli ingredienti giusti ma senza sapore. Peggio, significa privarsi della possibilità di svilupparla, quella capacità, perché è solo attraverso una pratica prolungata e paziente che impariamo a fare (bene) una cosa. 
Questo, d’altra parte, è un problema implicato da tutte le applicazioni: ogni volta che ci abituiamo a utilizzarne una, ci disabilitiamo un poco. Più usiamo il GPS e meno siamo capaci di orientarci; più fotografiamo e meno riusciamo a imprimere nella nostra memoria visiva le immagini di ciò che abbiamo visto; più digitiamo sulla tastiera e meno sappiamo scrivere a mano. Non vorrei suonare eccessivamente retriva, ma le abilità che perdiamo sono assai più complesse dei dispositivi che otteniamo in cambio. 
«Va bene, ma io non aspiro al Nobel» obietterà qualcuno, «e tanto meno al premio Pulitzer: devo soltanto scrivere una dannata e-mail, o un post sul mio social preferito, o un articolo per aggiornare il blog». Certo, l’aspirazione alla purezza va sempre guardata con sospetto – come giova talvolta ricordare, Adolf Hitler pare fosse astemio, vegetariano e non fumatore, sic – e un rifiuto acritico del mezzo indicherebbe un atteggiamento pregiudiziale. A tale proposito, è utile rifarsi al saggio Track Changes (2016) di Matthew Kirschenbaum, professore di letteratura presso l’Università del Maryland, che ricostruisce la storia del passaggio dal cartaceo ai processori di testo a partire dalla metà degli anni Sessanta fino a oggi (più in basso, ndr). Oltre alla gustosa aneddotica relativa all’impatto della nuova tecnologia su autori come Updike e Asimov, Kirschenbaum racconta di come, inizialmente, vi fosse molta resistenza verso l’uso del computer, soprattutto presso gli scrittori di alto profilo. 

Macchine creative?
«Gore Vidal affermò che i processori di testo stavano sradicando la letteratura», mentre «Harlan Ellison giurò che non ne avrebbe mai toccato uno». Altri scrittori «si mostravano più preoccupati all’idea che i loro editori e agenti potessero pensare che era stato il computer a fare il lavoro». Gli scrittori di genere, per contro, e in particolare quelli di fantascienza, si mostrarono più ricettivi ma, come precisa Kirschenbaum, non tanto perché già tecnologicamente orientati quanto per la maggiore rapidità garantita dal mezzo: «Alla fine degli anni Settanta-inizio degli Ottanta, se volevi guadagnare abbastanza per vivere come scrittore di fantascienza dovevi pubblicare almeno due o tre romanzi all’anno…». E così, nonostante l’ansia iniziale, il risparmio di tempo comportato dall’uso di word processor ne ha decretato in breve tempo l’adozione da parte di chiunque scriva, professionalmente e no, senza che questo abbia avuto ricadute particolari sulla qualità dei testi prodotti. Confidiamo dunque che lo stesso valga per i nuovi processori, e che l’Intelligenza Artificiale non si riveli pure creativa. Perché questo, al di là di tutto, sarebbe davvero un po’ seccante…

CHI È EVELYN BEREZIN?
La paternità del word processor è in realtà una maternità perché la sua invenzione è ascrivibile a una donna: Evelyn Berezin (1925-2018). Nata nel Bronx da una famiglia di immigrati ebrei russi, laureata in fisica nel 1945, realizza nel 1962 il primo programma computerizzato per la prenotazione di voli della United Airlines. Nel 1969 brevetta Data Secretary, un processore ancora privo di schermo ma già in grado di cancellare, copiare e incollare parti di testo. La macchina incorporava la tastiera della Selectric e aveva le dimensioni di un piccolo frigorifero.


Evelyn Berezin, 1925-2018

IL PRIMO LIBRO SCRITTO “IN DIGITALE”
Gli aspiranti al titolo di «primo scrittore digitale» sono almeno 3, ma Matthew Kirschenbaum depone a favore di Len Deighton, autore britannico di spy-story popolare soprattutto durante gli anni Sessanta. Verso la fine di quel decennio, Deighton riuscì ad acquistare per circa 10mila dollari il primo prodotto che la IBM ha commercializzato in qualità di word processor: la Magnetic Tape/Selectric Typewriter (MT/ST), una macchina da scrivere priva di display ma la cui tastiera registrava su nastro magnetico quanto veniva dattilografato, comprese le correzioni. Così, anche se il foglio su cui si scriveva era pieno di svarioni tipografici, la sequenza corretta dei caratteri veniva «salvata» su nastro. «A quel punto era sufficiente mettere un foglio nuovo nella macchina da scrivere e il testo veniva ristampato automaticamente nella forma corretta, in modo analogo a quanto avviene con una pianola meccanica» (M. Kirschenbaum intervistato da R. Meyer, «How to Write a History of Writing Software», The Atlantic, 29/6/2016).  Secondo Kirschenbaum questo dispositivo catturava già l’essenza del word processing, che non consiste semplicemente nel visualizzare a video un testo, bensì in quella che lui definisce come «crittografia sospesa»: «Stai scrivendo, ma è come un’animazione sospesa. Il testo rimane in uno stato fluido, malleabile, fino a quando non decidi di fissarlo su un supporto materiale, ovvero di stamparlo». Fu esattamente questo il modo in cui Deighton – o meglio la sua segretaria, Ellenor Handley, che operava fisicamente sulla Selectric – scrisse un romanzo intitolato Bomber. Pubblicato nel 1970, è probabilmente il primo libro che sia stato scritto «digitalmente».

 

 

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