A Francesco. Ripassando De Gregori

Nel concerto che ha inaugurato il LongLake Festival, il Principe ha rivisitato tutti i suoi classiconi. Un Bignami per mezzo secolo di carriera

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

A rivederlo in Piazza Riforma, con abito di lino e orchestrona, chi già conosceva Francesco De Gregori non ha forse imparato nulla di nuovo. La scaletta è stata quella dei classici da Platinum Collection («Generale», «Rimmel», «Alice», «Buonanotte fiorellino» eccetera), senza novità né perle dimenticate. L’accompagnamento sinfonico ha ampliato il respiro di certe armonie, ma gli arrangiamenti ruffiani della Gaga Symphony Orchestra (avvezza a quelle contaminazioni popolari che hanno stufato più della cucina fusion) non hanno aggiunto granché alla filigrana originale, anzi: forse ne hanno un po’ annegato certe salutari spigolosità, senza offrire in cambio nulla che costringesse il pubblico a riascoltare il già noto con orecchie diverse. Mapperò. Però un ripassone fa sempre bene, anche perché il Principe è in forma, meno scorbutico del solito e loquace il giusto. E il suo grandioso Bignami procede per capitoli, riannodando i temi di una carriera lunga ormai mezzo secolo.

Capitolo 1. Storia
La prima materia in programma è storia. E quindi «siamo noi», come noto. La riflessione sul passato porta un chiaro messaggio politico, coniugato al presente: torna «il treno che portava al sole», ma ora «non fa più fermate neanche per pisciare»; si piangono i «quindicenni sbranati dalla primavera», ché «qui si fa l’Italia e si muore». C’è chi vuole «convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera»; e «la storia dà i brividi», si sa, anche perché «quelli che non sanno nemmeno parlare» rimano col fatto che «nessuno la può cambiare». Fra ieri e oggi c’è ancora chi insegue il sogno della «Svizzera verde», di chi viene qua a «fare castelli» di speranze ma anche, più prosaicamente, a «costruire autostrade». In barba alle ruspe salviniane c’è perfino tempo per ricordare la bellezza misteriosa degli zingari, persi «a costruire giostre e a vagabondare, ma adesso è tardi anche per chiacchierare». Così la cronologia del Novecento si sdipana di verso in verso, fino a quel cinematografico «sole che batte sui palazzi in costruzione», quando il boom economico riaccendeva qualche speranza: «Il ragazzo si farà». E va detto che gli archi dell’orchestra, in questo caso, rendono ancora più veloce e «stregata» quella corsa in porta con la palla incollata al piede.

Capitolo 2. Arte
Poi si passa a storia dell’arte. Non l’arte maiuscola che sta bene nei musei, anche se un po’ museale questo concerto lo è. Semmai quei 4 attrezzi del mestiere – e quelle maschere – che puoi chiudere nella «valigia dell’attore», mentre rifletti sullo «strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi». Ma anche l’arte visiva e visionaria delle incisioni di Max Klinger, che De Gregori insegue in musica come il guanto precipitato «da una mano desiderata, a toccare il pavimento del mondo in una pista affollata». 

Capitolo 3. Amicizia
Ma qui in fondo siamo già oltre, abbiamo dato una scorsa alle pagine sulla psicanalisi e si viene al dunque. All’amicizia, prima di tutto. Quella che ti permette di «camminare con le stesse scarpe per diverse strade, o con diverse scarpe su una strada sola», mentre «pioggia e sole cambiano la faccia alle persone» e «fanno il diavolo a quattro nel cuore». Quella di Bufalo Bill con l’«amico Culo-di-Gomma, famoso meccanico», che ti ci distrai un attimo «a contemplare l’America» e finisce che i tuoi vent’anni «quando ti volti a guardarli non li vedi più». 

Conclusioni. Amore
Infine l’amore. Quello per l’umanità intera, «per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi». Quello cornuto e mazziato del povero «Cesare perduto nella pioggia». Quello più speranzoso, ché prima o poi «con le mani amore, per le mani ti prenderò». L’amore che De Gregori, di chiaro vestito, con una sigaretta in bocca in mezzo alle nuvole create da ventilatori e nebulizzatori per combattere l’afa, ti canta finendo per sembrare un incrocio fra San Pietro e Bill Murray. Ma non divaghiamo. «Ognuno è fabbro della sua sconfitta», certo, ma se intanto «nelle pieghe della mano» hai «una linea che gira» puoi sempre giocarti il fascino di «due anime e un sesso di ramo duro». «L’amore ha sempre fame», peraltro, e poi a certe cose «si gioca per vincere e non si gioca per partecipare». 
C’è spazio anche per l’amore materno, per quella povera donna che guarda il figlio imbarcarsi per l’America «coi pantaloni rattoppati al sedere» e si domanda «con quali occhi ti devo vedere?» Anche i ricchi piangono, d’altronde, specie se s’innamorano del marconista del Titanic e delle sue «lunghe dita celesti nell’aria». L’amore vince sempre – «gli uccellini nel vento non si fanno mai male» –, ma poi forse non è mica vero, e allora «le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo». Però almeno «qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure».

 

DISCHI & POESIA
La «trilogia del Titanic» – contenuta nell’album omonimo dell’82 e costituita da «L’abbigliamento di un fuochista», «Titanic» e «I muscoli del capitano» – fu ispirata dalla raccolta di poesie Der Untergang der Titanic (La fine del Titanic, 1978) di H. M. Enzensberger.

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