Saul Bellow e altre scomode avventure

Capostipite dei mistificatori, abbellitori e imbruttitori della realtà a seconda delle convenienze. È tutto dentro le sue ‘Adventures’ su Pbs

Di Daniele Manusia

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Durante la rentrée francese 2020 è stato pubblicato Yoga di Emmanuel Carrère, un libro persino più autobiografico dei libri più famosi dello stesso autore che, sempre, almeno in parte, tiravano in ballo non solo il suo punto di vista ma anche i fatti suoi. Yoga parlava della depressione che ha spinto Carrère al ricovero nel contesto del suo divorzio. In questo caso, quindi, i fatti suoi erano anche i fatti della moglie Hélène Devynck, giornalista, che in un articolo su Vanity Fair dove lo accusava di aver aggiustato la realtà a proprio favore, si chiedeva anche dove fosse il confine tra rappresentazione e abuso, tra diritto di scrivere di quello che si è vissuto e diritto a non diventare un personaggio secondario – se non addirittura il “cattivo” – della storia di qualcun altro: “Sarò, fino alla morte, un oggetto di scrittura fantasticato dal mio ex marito?”.

Cercare (almeno) la forma

Sembrava una questione nuova, anticipatoria di quello slittamento della sensibilità culturale che avrebbe portato, oggi, ai “sensitivity readers” alla ricerca di parole ed espressioni offensive nei gialli di Agatha Christie come nei libri per bambini di Roald Dahl (anche questa, a ben guardare, non proprio una novità considerando che già nel 2011 in una versione aggiornata delle Avventure di Huckleberry Finn la “n word” veniva sostituita dalla meno connotativa “schiavo”). In realtà che le donne fossero rappresentate male, o comunque in modo parziale, da certa letteratura contemporanea eminentemente maschia e bianca, non era un segreto, né tantomeno una grande novità.

È uno dei temi che emerge nel documentario dedicato da PBS a Saul Bellow, restituendogli perversamente una sua attualità. The Adventures of Saul Bellow, andato in onda lo scorso dicembre nella serie American Masters, è diretto dal documentarista Asaf Galay, che in passato si era dedicato alle donne che avevano tradotto un altro grande autore della letteratura ebraica contemporanea, Isaac Bashevis Singer. Il titolo si riferisce al primo grande romanzo (il terzo in ordine cronologico) di Saul Bellow Le avventure di Augie March che si apriva, appunto, con una bugia: “Sono americano, nato a Chicago”. Bellow era nato in Québec da genitori russi e quell’incipit era più che altro una rivendicazione della forza trasformatrice della letteratura.

Così eravamo…

Saul Bellow è forse il capostipite dei mistificatori, abbellitori e imbruttitori della realtà a seconda delle convenienze, maschi bianchi che hanno regnato nel panorama letterario contemporaneo. Premio Nobel nel 1976, in quello stesso anno la critica femminista Vivian Gornick pubblicava un articolo intitolato: “Perché questi uomini odiano le donne?”, con le foto di Henry Miller, Philip Roth, Norman Mailer e, ovviamente, Saul Bellow. D’altra parte, come darle torto?

Sposato cinque volte, padre a 84 anni per la quarta volta con una donna di 44 anni più giovane, Bellow ha scritto soprattutto delle proprie separazioni, senza particolari censure per non offendere le sue ex compagne. In un celebre passaggio, Bellow descrive le donne quasi fossero esemplari di una specie aliena: “Mangiano insalata e bevono sangue umano”. A distanza di quasi cinquant’anni neanche la stessa Gornick, intervistata in The Adventures of Saul Bellow, riesce a trattenere le risate di fronte a quello che definisce “una lingua incredibilmente brillante”.

Il documentario di Galay si sofferma su questi e altri passaggi invecchiati particolarmente male nei libri di Bellow – la descrizione del pene di un borseggiatore nero che riassume tutta la paura stereotipata dell’America bianca in anni di lotte per i diritti civili; l’outing postumo dell’amico e scrittore Allan Bloom, rappresentato in modo fin troppo chiaro in Ravelstein – interrogando a proposito autori e critici. Il romanziere Charles Johnson, autore anche di saggi sui diritti degli afroamericani, leggendo dei “peli metallici” che comparivano sul pube del borseggiatore non sa che dire, rimane sospeso tra l’ovvio razzismo e l’ammirazione per la scrittura di Bellow.

L’autrice Katie Roiphe ritiene che quella di Bellow sia anche, almeno in parte, una caricatura, e quindi una critica, dell’uomo bianco, di quei personaggi che mettono in mostra “il fallimento della loro intimità e l’incapacità di provare connessioni intime”. O anche, come riassume Philip Roth poco più avanti nel documentario: “He was not a nice fellow”.

Visto coi nostri occhi

Ma The Adventures of Saul Bellow non è un processo a uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, semmai è il tentativo di calarlo nella contemporaneità con sguardo critico. Senza cancellarlo né correggerlo. I limiti di Bellow, tanto suoi quanto dell’epoca in cui è vissuto, non tolgono nulla alla forza di quella scrittura che spinge Salman Rushdie a definirlo “il Cristoforo Colombo delle cose a portata di mano”. Uno scrittore capace, cioè, di vedere lo straordinario, l’esotico, il magnifico, l’orrendo, il tragico, il comico, nella banalità di un occidente sempre in crisi. Più di mezzo secolo dopo alcuni dei suoi libri più famosi, in un periodo cui il rapporto tra l’arte e la vita, tra l’artista e la persona che c’è dietro, è al centro di ogni discorso critico e culturale, il documentario sulla vita di Saul Bellow ci ricorda che in fin dei conti è sempre stato così. E ci mette in guardia su una cosa: una soluzione definitiva al problema, forse, non esiste.

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