Italia-Svizzera. Visti dal confine

Note storiche sull’eterno “conflitto” a nord e a sud della ramina

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Quella verso sud è una frontiera storica. Ticinesi e italiani sono il ‘frutto’ di vicende spesso collegate, ma anche molto diverse tra loro. Aspetti importanti che vanno ricordati e riconosciuti, non tanto per scavare fossati e costruire muri, ma per meglio comprendere chi siamo e da dove veniamo.

Nell’Europa di oggi i confini hanno un impatto molto diverso rispetto a quello che potevano avere fino a un trentennio fa. Nella maggior parte dei casi li attraversiamo senza difficoltà e senza neppure fare troppo caso alle linee di demarcazione tra gli Stati. Eppure confini e frontiere continuano a persistere, sono presenti, continuano a raccontarci storie di relazione e di separazione che possono essere più o meno lunghe ed elaborate. Ignorare i confini e le loro storie, come vorrebbe in maniera semplicistica uno dei mantra più frequenti della globalizzazione, non ha senso perché significherebbe negare il passato, non comprendere il presente e non preparare in maniera adeguata il futuro.

Ticino e Italia, vicini-lontani
Pensiamo solo a quanto è complesso il rapporto di confine tra canton Ticino e Italia e quanto spesso questo rapporto venga descritto in maniera semplicistica e superficiale data la vicinanza linguistica e di tradizioni che esiste tra i ticinesi e, in particolare, i lombardi. Nel caso italo-ticinese si enfatizzano elementi come l’antica appartenenza del Ticino alla Lombardia e il legame religioso con le diocesi di Milano e Como durato fino all’Ottocento inoltrato. Si sottovaluta, però, quanto quella tra il nostro cantone e la vicina Italia sia oramai una frontiera storica, consolidata da più di cinque secoli di esperienze e percorsi divergenti. E si sottovaluta quanto la distanza tra terre ticinesi e terre lombarde si sia progressivamente approfondita e allargata nel corso dei secoli.

Questa distanza però emerge chiara se andiamo a ripercorrere le scelte fatte dalle comunità del Ticino già a partire dal Cinquecento, quindi circa cinque secoli fa. Certamente all’inizio del XVI secolo, quando avvenne la separazione dal Ducato di Milano e iniziò il governo dei Confederati, le città e i villaggi ticinesi guardarono con sospetto alla nuova situazione che li metteva alla mercé di signori di lingua e costumi diversi. Probabilmente molti sperarono in un possibile rivolgimento, che però non avvenne neppure quando gli svizzeri furono sconfitti dal re di Francia Francesco I nella battaglia di Marignano del 1515. Anzi, da quella data, l’egemonia elvetica divenne definitiva e i ticinesi cominciarono ad apprezzare il fatto di doversi confrontare con poteri che si trovavano al di là del Gottardo, che erano quindi lontani e concedevano di fatto ampie autonomie. Allo stesso tempo emersero i vantaggi della neutralità confederata, una neutralità che evitò al Ticino di diventare campo di battaglia delle frequenti guerre tra spagnoli, francesi e Impero d’Austria che caratterizzarono la vicina Lombardia per molto tempo.

La scelta svizzera
Emerge così, scorrendo la storia ticinese, un dato di fatto incontrovertibile: il Ticino non manifestò mai con forza un desiderio di riunirsi alle terre italiane come avvenne per esempio in Valtellina, dove gli abitanti lottarono per separarsi dall’egemonia dei Grigioni fino a riuscirci nel 1797. Ci furono certo nel tempo voci favorevoli all’antica patria, però già nel Settecento emerse il desiderio di essere indipendenti ma all’interno della Confederazione. Un desiderio che si univa alla volontà di guardarsi da ogni forma di assolutismo monarchico proveniente da sud, fosse esso rappresentato dagli Asburgo d’Austria oppure, con la nascita del regno d’Italia nel 1861, dai Savoia. In area ticinese, insomma, l’autonomia, l’autogoverno corporativo e comunale, al pari della coscienza di sé e dell’aspirazione all’indipendenza, sono sempre stati assai più radicati che nelle vicine zone italiane, per certi versi come conseguenza del modo di vivere di queste terre dove l’unità vitale era la valle, il villaggio, la comunità locale. 
Fu piuttosto l’Italia, alla fine dell’Ottocento, a mostrare un’attenzione interessata verso le terre oltreconfine di lingua italiana, identificate come territorio italiano da recuperare alla Patria. Il neonato regno d’Italia, infatti, mirava a ottenere lo status di potenza europea e a completare l’unificazione nazionale, incorporando tutte quelle terre dove vivevano persone di lingua italiana, considerate in maniera automatica italiani. Questo ragionamento si applicava agli abitanti del Trentino, ai friulani e ai triestini, sudditi dell’Impero d’Austria alla fine dell’Ottocento, e veniva esteso anche ai ticinesi. La grande differenza, una differenza che però non veniva colta in ambito italiano, era che mentre trentini, friulani e triestini erano in buona parte legati al nazionalismo italico, in Ticino non emergevano sentimenti di irredentismo, né si levavano voci in favore di un ritorno all’Italia. Anzi vi era preoccupazione per le politiche nazionaliste dell’ingombrante vicino, una preoccupazione che aumentò con la Prima guerra mondiale e poi durante il ventennio di regime fascista in Italia (1922-1943). Inoltre i rapporti tra Ticino e Italia non erano certamente tutti «rose e fiori», anche perché le autorità ticinesi davano accoglienza a molti anarchici e socialisti fuoriusciti dal vicino Belpaese, così come durante le lotte per l’indipendenza italiana contro l’Austria avevano accolto molti patrioti. Queste scelte irritavano fortemente le autorità italiane, tanto che nel 1902 si arrivò anche alla temporanea interruzione delle relazioni diplomatiche tra Svizzera e Italia. 

Il mito delle «terre lombarde perdute»
In un certo senso il governo italiano non si capacitava del fatto che il Ticino, terra di lingua e tradizione italica, desse rifugio a quelli che venivano considerati nemici dell’Italia. Divenne quindi evidente una distorsione nel modo con cui gli italiani guardavano alla Svizzera e al Ticino in particolare. In un’epoca di culto della potenza militare e di nazionalismo sfrenato come fu la prima metà del Novecento, in Italia si faceva veramente fatica a comprendere una realtà statale come la Svizzera, considerata – per il suo federalismo – anacronistica in un’Europa di stati-nazione e definita imbelle perché neutrale. Divenne poi scontato per molti italiani considerare i territori ticinesi «terre lombarde perdute», come se secoli di separazione non avessero segnato un distacco e la nascita e il rafforzamento in Ticino di un’identità più vicina alla Confederazione che all’Italia. Un punto di vista distorto che ancora oggi non facilita da parte italiana la comprensione della realtà del cantone e che enfatizza il passato comune dimenticandosi del presente e delle differenze. Ci si dimentica allora di come i ticinesi siano abituati oramai da secoli a fare i conti con un’autorità che proviene dal basso, cioè dal popolo, mentre in Italia la fonte del potere è posta ai vertici, nelle istituzioni statali. E si tralasciano gli sforzi fatti dal Ticino per limitare o addirittura recidere gli antichi legami con l’Italia, anche dal punto di vista religioso sottraendosi al controllo delle diocesi di Como e Milano. L’ingenuità di certe posizioni italiche emerge nel momento in cui si vagheggia la bontà del modello politico svizzero e si ipotizza di imporlo anche nel Belpaese, ma dall’alto, per volontà delle autorità, non capendo così che la Svizzera è il frutto di un processo che parte dalla base, dalle comunità e poi si estende ai vertici.

Cinque secoli di identità
Se non si comprende, se non si conosce, se non si accetta la differenza altrui diventa però difficile dialogare e trovare anche spazi concreti di incontro. Il punto di partenza non può essere la negazione della distanza in nome della modernità globalizzata che deve per forza far rima con progresso. Punto di partenza deve essere il riconoscimento e il rispetto delle differenze e delle reciproche identità, frutto di percorsi storici e di esperienze diverse. 
Il confine è lì da 500 anni a ricordarci tutto questo. Non è più come un tempo una barriera sorvegliata a vista, però è il segno di una storia da raccontare e da conoscere per rendersi conto che tra vicini ci sono affinità, ma anche la distanza tracciata oramai da cinque secoli di separazione. Una separazione per cui non si può più pensare ai ticinesi come a italiani esuli in terra straniera, ma come a svizzeri di lingua italiana. Una separazione che ci dice che il Ticino è una forma alternativa di italianità, legata alla cultura e alla lingua della Penisola ma diversa per storia. Riconoscere che cinque secoli sono passati e non invano ci può aiutare a vivere il confine in maniera diversa, come luogo dove ci si incontra, ma prima di tutto ci si rispetta. 

APPROFONDIMENTO
Un po’ di storia
Per tutto il Medioevo il territorio del Ticino è stato legato a Milano e alla vicina Como. A partire dal Quattrocento però i Confederati svizzeri iniziarono a mostrare grande interesse per le terre a sud delle Alpi, entrando così in conflitto con il Ducato di Milano. In questa sfida tra svizzeri e milanesi a far pendere l’ago della bilancia a favore dei Confederati furono le invasioni da parte dei francesi del Ducato di Milano alla fine del XV secolo, che destabilizzarono il potente Stato italiano. Nel giro di pochi anni gli svizzeri estesero la loro egemonia a tutto l’attuale territorio ticinese, un’egemonia che nei secoli successivi non fu più messa in discussione. Iniziò così per il Ticino l’epoca dei baliaggi che si protrasse fino al primo Ottocento. I legami con i territori lombardi, controllati dai francesi, poi dagli spagnoli e a partire dal Settecento dagli austriaci si allentarono, nonostante le terre ticinesi rimanessero parte delle diocesi di Milano e Como. Una prima definizione internazionale del confine tra Ticino e territori lombardi si ebbe nel 1752 con il trattato di Varese, voluto dalle autorità austriache per regolare i diritti e proprietà dei fondi di frontiera. Un ulteriore fattore di distacco con l’Italia fu la nascita nel 1803 del Canton Ticino, entità a pieno titolo parte della Confederazione elvetica. Sempre nell’Ottocento seguì anche la separazione religiosa da Como e Milano, con la creazione della Diocesi di Lugano amministrata (fino al 1971) dal vescovo di Basilea. Il resto è storia recente, negli ultimi anni segnata da accesi dibattiti legati sia alla sfera finanziaria (segreto bancario) e sia al mondo del lavoro (frontalierato). 

INVITO ALLA LETTURA
La Svizzera e l’Austria rappresentano per l’Italia le più importanti frontiere verso nord. Gli storici italiani Roberto Roveda e Michele Pellegrini nel volume Il confine settentrionale (Oltre edizioni, 2018; prefazione di Fabrizio Panzera) raccontano le peculiarità di queste frontiere, partendo dalla loro storia più antica per giungere ai giorni nostri. Ne emerge così il particolare processo di formazione di queste regioni, con le loro trasformazioni e caratteristiche. 

 

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