Franco Ghielmetti. La vita nell’arte, l’arte nella vita

L’artista ticinese vive il processo creativo come una necessità imprescindibile, quasi come respirare… Lo abbiamo intervistato

Di Prisca Agustoni

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Nato nel 1952 in Ticino, Franco ha inizialmente intrapreso la carriera bancaria, prima di licenziarsi e iscriversi, nel 1974, all’Accademia di Belle Arti di Brera, abbracciando quello che sin da bambino era il suo sogno, ‘lavorare per immagini, sentirmi più vicino al Vero’. Segue quindi la formazione in Pittura e Storia dell’Arte con Zeno Birolli. Negli anni successivi sarà a Parigi, come alunno di Gilles Deleuze e Claudine Eizykman in Studi Cinematografici e Audiovisuali e Filosofia, e dalla metà degli anni Ottanta realizzerà una serie di viaggi di studio, esplorando altre culture e altri modi di rappresentare la vita. Sviluppa in parallelo al linguaggio artistico la pratica pedagogica della pittura per i giovani (ispirato al Closlieu parigino di Arno Stern) che gli permetterà di lavorare quale educatore e di portare avanti la libertà come artista e il confronto con la società e con la gente, essenziali per il costante processo di metamorfosi che rappresenta l’essere umano.

Per Franco Ghielmetti l’arte non è solo una delle più antiche e preziose forme di espressione umana, ma un vero e proprio modo di vita: “Vedo la mia vita artistica come Necessità (anche nel senso filosofico). Non vedo altra via percorribile… È per me l’unico modo per essere Vivo. Già da piccolo, guardando una pittura preistorica, mi riconoscevo in quella forma di comunicazione e mi provocava una grande gioia e una straordinaria apertura mentale. Poi a questa prima esperienza estetica è subentrato lo studio e l’incontro con Duchamp, con le ninfee di Monet, con i film di Joseph Cornell… o ancora con Louise Bourgeois o Giotto, senza dimenticare Hokusai e tutti i segni Zen, solo per citare artisti che mi hanno segnato e accompagnato lungo la mia formazione”.


Foto © Franco Ghielmetti
Lontano dall’equilibrio XII – cotone, carta, pigmenti, medium acrilico cm 151 x 48 – 2018

Dalle sue parole capiamo quanto l’aver abbracciato, una volta adulto, il suo sogno, quello di vivere come artista, gli abbia imposto una sterzata radicale, in termini di valori esistenziali e di approccio alla vita: abbandonata la stabilità dell’impiego in banca, gli anni successivi sono stati quelli della formazione (in Accademia a Brera) ma soprattutto quelli di incontri importanti, come fu il caso di Zeno Birolli a Milano o Gilles Deleuze a Parigi, due maestri grazie ai quali Ghielmetti ha fatto suoi lezioni e concetti, diventati modelli per il proprio lavoro artistico.

Apertura geografica e mentale

Ma non solo di formazione accademica si è alimentato l’universo simbolico e artistico di Ghielmetti durante questi anni: lo stupore estetico suscitato in lui quando ancora bambino dalla visione di una pittura preistorica è lo stesso tipo di emozione che lo porta a voler scoprire nuovi orizzonti geografici e mentali, facendolo partire dal Ticino verso luoghi lontani, non con il manuale da turista, quanto piuttosto con un taccuino, due pennelli e una bussola. “Ho sempre amato spostarmi e non essere mai fermo, vivere altre culture”, ci confessa. Ed è così come, ancora giovane studente, mosso dalla passione per il rock, parte prima per l’Inghilterra, alla quale seguiranno gli anni di vita a Milano, poi a Parigi, dove scoprirà il dadaismo e il pensiero rizomatico, coniato appunto da Deleuze. A questi soggiorni europei seguiranno voli più audaci, come è il caso dei viaggi nel sud del Marocco, vicino al Sahara, alla scoperta del popolo Berbero, o la conoscenza degli Aborigeni australiani, della loro arte, del loro pensiero e dei loro canti. In una sorta di circumnavigazione artistica, Ghielmetti si ritrova poi sulle Isole del Pacifico francese, in Nuova Caledonia, dove scopre che lo stato d’animo laggiù denominato “Fiu” rappresenta una specie peculiare di noia dettata dalla loro condanna a vivere in una primavera perenne, in assenza di altre stagioni.

Anche gli Stati Uniti trovano in San Francisco una città di conciliazione per Ghielmetti: “Qui ho conosciuto meglio i cubani, la loro musica, e soprattutto la scena della Beat Generation. Una città davvero poco ‘americana’”. E poi, come non citare l’amata Marsiglia, città dalla quale ancora oggi non riesce a stare lontano oltre un anno, “dove è marsigliese solo colui che arriva, e non chi parte”.

Il mondo in una stanza

Tanti luoghi, tanti simboli, tante culture che inevitabilmente segnano l’uomo e l’artista, che non riesce (più) a concepire l’identità come la definizione di qualcosa di unico a sé stante, monolitico, ma piuttosto un perenne divenire, una molteplicità di visioni e segni sovrapposti, concomitanti, dialoganti o dissonanti. È interessante osservare come l’assemblaggio di questo mosaico di voci e di visioni avvenga proprio a Chiasso, città dove vive da sempre, dove ha l’atelier di pittura e dove è uno dei fondatori del noto festival letterario e, dal 2005, una delle anime di Festate. E certo, non poteva che avvenire a Chiasso la sintesi del suo peregrinare: una città di confine che sconfina verso altri orizzonti.

La visita al suo atelier è un’esperienza a parte, quasi magica. L’atelier artistico convive con lo spazio abitativo di Ghielmetti, i due ambienti separati unicamente da veli rossi. I lavori in processo sono sparpagliati per terra, nel salone, secondo una logica che, come ci ha spiegato, dipende dalla fase di processualità dell’opera. Questa forzata convivenza quotidiana con le tele fa sì che l’artista sia sempre vigile, potenzialmente aperto alle tappe successive dell’elaborazione pittorica. “È come se le opere si costruissero da sé, poco alla volta. Una serie si costruisce come se la mia volontà non avesse il comando dell’operazione. Ora, per esempio, lavoro su una fase in ‘bianco e nero’ con una specie di Moby Dick che si aggira per le tele. Non so ancora bene come tutto si stia costruendo… poi un giorno tutto diventa chiaro e le opere si compongono in poco tempo; quando il lavoro è finito, non lo guardo più… ma dei pezzi ‘strani’ restano a terra e comporranno l’inizio della prossima serie”.

Caleidoscopio di vite

La scelta di abbracciare l’arte come forma di esistenza ha sfidato l’organizzazione della vita pratica, che risponde ad altre esigenze quotidiane. Ghielmetti si è dunque cimentato nei più svariati lavori per guadagnarsi da vivere: controllo delle uve merlot per la Confederazione; grafico per aziende e giornali; barman, specialista in cocktail; traduttore di testi per Musei; lavapiatti; interprete inglese-italiano per Fiere milanesi; assistente alle interviste con i rifugiati per conto dell’Organizzazione Svizzera d’Aiuto ai Rifugiati, ed educatore part-time. Tutti lavori che gli hanno permesso di osservare le proprie opere con altri occhi, da altre prospettive. Ciò nonostante, Ghielmetti ha sempre cercato di integrare l’arte nella vita pratica. Durante gli anni 80 ha infatti inaugurato un atelier di pittura per ragazzi, ispirato dal lavoro di Arno Stern, e poco a poco questo spazio è diventato un punto di riferimento per giovani che faticavano a integrarsi nella società: la pittura è così diventata uno strumento che dava un senso e una forma al loro malessere, permettendogli di superarlo.

Anche la musica è da sempre sua compagna di vita: figlio di una pianista, ci racconta che poco prima che nascesse, sua madre gli suonava i notturni di Chopin per calmarlo. Da qui la sua passione per la musica e la collaborazione con il gruppo Dr. Chattanooga & The Navarones, portata avanti dal 1980 al 1985, e l’interesse per le sonorità del mondo. In definitiva, Ghielmetti ha scelto di essere “un cane sciolto”, come gli piace presentarsi, sempre disposto a scavare nella terra per trovarvi dei residui di immagini mai osservate da vicino, dei frammenti di un’opera sempre in costruzione, mai identica a sé stessa e aperta al futuro, con uno sguardo meravigliato sul passato più remoto.

Per conoscere il suo lavoro: www.francoghielmetti.net.


Foto © Franco Ghielmetti
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