William Berni, l’arte alle periferie dell’anima
Ritratto di un artista che sa reinterpretare gli ‘scarti’ urbani in modo davvero nuovo (ed è pure simpatico)
Di Cristina Pinho
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Le #CONCRETE SERIES di William Berni saranno esposte a Varese dal 25 maggio al 29 giugno, presso la Galleria d’arte Ghiggini 1822
La tortina di Linz sembra produrre in lui qualcosa di simile all’effetto delle madeleine per Proust, proiettandolo nel mondo dei ricordi. L’orario è intorno alle 22 – lavoriamo di sera –, quando l’aria è sonnolenta e la caffeina ormai inefficace. A toglierci da quell’atmosfera consumata dagli sbadigli arriva il momento dessert e aneddoti di William, provvidenziale come un digestivo. Distilla storielle tragicomiche, assieme a domande di ogni sorta e illuminazioni un po’ manchevoli sui massimi sistemi. È uno che in ufficio sintonizza tutti sul buonumore, un sognatore, entusiasta della vita, da superlativi, talvolta un po’ categorico ma dalla disponibilità incondizionata. Lo inquadri in fretta, pare, ma poi vedi le opere a cui si dedica nel tempo libero e ti accorgi che per completarne il ritratto servono molte più sfumature di grigio.
«Ho sempre disegnato, è una passione che ho fin da piccolo. All’inizio ero mediocre, poi ho capito che quelli bravi venivano riconosciuti e volevo sentirmi anche io così. Mi sono applicato e alla fine del liceo artistico ero diventato il punto di riferimento per molti. Ho iniziato coi ritratti, me ne commissionavano un sacco, ma non mi piaceva. Poi i miei ex colleghi mi hanno regalato un buono per un negozio di belle arti: ho preso alcune tele, pochi colori, dei pennelli e ho fatto due quadri con cui ho partecipato al premio artistico più rinomato di Varese. Ho vinto e ho dovuto preparare altri 20 dipinti per la personale che mi ero aggiudicato. Da lì è stato un continuo lavorare».
I dipinti con cui si è affermato sono scorci di paesaggi urbani iperrealisti. Gli elementi verticali – antenne, gru, pali dell’alta tensione, grattacieli – si ergono verso un cielo coperto e precluso; l’orizzontalità è fatta di strade, ponti, zone di passaggio deserte che conducono verso l’introspezione. Dell’umanità non ci sono che i residui (vecchie auto, rifiuti, scritte su serrande abbassate): lo spettatore è da solo in questi luoghi di desolazione e immobilità. «Il soggetto è la sensazione di chi guardava in quell’istante quel pezzo di mondo. Ma non volevo fossero fedeli riproduzioni fotografiche, la pittura è un po’ sporca, c’è sempre un’interferenza emotiva». Sono le nostre periferie dell’anima.
Poi arriva la serie sulle montagne. In primo piano magmatiche e dense macchie nere di roccia che colano, pittura che si sfalda e si fa informale: «Emerge il gestuale a scapito della precisione; si vedono di più il colore e la tela». Si svela l’artefatto, come a dire: il dipinto è imitazione, finzione, simbolo. Sullo sfondo si stagliano le vette innevate tra la foschia, ancora la solitudine e l’inquietudine di fronte alle nostre sfide: «La pittura è il biglietto che mi deve portare in alto, ma nessun traguardo mi basta mai. Io la chiamo la mia maledizione. È un costante combattere con me stesso per essere migliore, senza tregua. Però è anche quello che mi rende forte, mi permette di superarmi ogni volta. Perché il talento non esiste, servono solo un po’ di sensibilità e tanto esercizio».
In contemporanea ha preparato dei pezzi per un’esposizione a Berlino: si tratta di cassonetti ricoperti di graffiti, tag e icone, isolati su sfondi color pastello stile pop art. Qui l’influenza della cultura hip hop con cui William è cresciuto è evidente. «L’intento era: ti vendo la spazzatura, qualcosa che hai davanti tutti i giorni e vuoi buttare; io le do valore e te la faccio pagare. In più i container sono pieni di messaggi di persone che credevano fermamente in qualcosa, quindi sono anche un veicolo e un omaggio. Grazie a questo lavoro mi ha contattato George Morillo, uno dei primi writer newyorkesi, è stato davvero un grande onore per me».
Da un po’ di tempo ha intrapreso una nuova via, astratta e concettuale, ma al contempo macro-iperrealista: fabbrica pezzi di muro di cemento, li incornicia e li mette sulla parete illuminati da un neon. Nel suo percorso per sottrazione è arrivato all’essenziale, al materico. Con queste opere sulla soglia dell’installazione attua una decostruzione dei codici partendo da materiale da costruzione. Ed è un po’ quello che l’arte contemporanea persegue: squarciare la tela delle convenzioni per spostare i punti di vista, rimettersi in questione senza aderire alle aspettative. «Non so se gli altri colgono, ma a me piace da morire. Ora sto facendo muri che il tempo ha consumato, vissuti. Ma ho anche l’idea di superfici molto più asettiche, freddissime, quasi aliene, che semplicemente evochino emozione». Un po’ come le tortine di Linz.
William Berni è nato a Somma Lombardo, nel Varesotto, nel 1978. Dopo il liceo artistico ha iniziato a lavorare come grafico a Milano e poi sul Lago di Varese. Sei anni fa si è trasferito in Svizzera; attualmente vive nei Grigioni, ad Andeer, ed è impiegato a Bellinzona come poligrafo. Nel 2013 ha vinto il premio Ghiggini Arte giovani dell’omonima galleria che da allora lo rappresenta. Ha preso parte a varie esposizioni a Varese, Milano, Berlino. Nell’ambito hip hop ha registrato diversi pezzi ed è conosciuto come Lana.
Per informazioni: williamberni.com