Piange il telefono (che non serve più per conversare)
Al dialogo preferiamo i messaggi vocali. Un cambiamento non privo di risvolti psicologici e sociali
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Nel 2018 in Ticino e nel resto della Confederazione è iniziato lo smantellamento di oggetti un tempo consueti nel paesaggio urbano: le cabine telefoniche. Piccoli abitacoli nei quali era possibile isolarsi dal mondo per qualche minuto e, nel relativo silenzio di quella sospensione, sentire la voce della persona chiamata e udire la nostra che le rispondeva. Ed era un po’ romantico e un po’ misterioso, considerato che la cabina telefonica era anche il veicolo che consentiva al Dottor Who di viaggiare nel tempo; noi invece le usavamo per viaggiare nello spazio e raggiungere magari l’amico conosciuto in campeggio e che abitava lontano, con il vantaggio di una privacy che il telefono di casa non consentiva. Poi lo sappiamo com’è andata: sono arrivati i cellulari e a seguire gli smartphone. Dal 2004, il numero di chiamate dalle cabine telefoniche è diminuito del 95%, tanto che, laddove resistono, sono state convertite in micro-biblioteche per il bookcrossing oppure adibite ad altre funzioni (vedi box nelle pagine seguenti, ndr). Ma non è che ci siamo persi qualcos’altro in questo passaggio?
«Se un amico mi chiama penso subito che sia successo qualcosa di grave, tipo un incidente o qualche altra catastrofe» afferma Andrea, 15 anni, perfetto rappresentante della sua generazione (la «Z», nota anche come iGen – sulla falsa riga dell’iPhone – ovvero quelli nati a partire dal 1997; i «post-millennials», insomma). Uno studio svolto nel settembre del 2017 che ha coinvolto più di 4’000 ragazzi di età compresa fra i 18 e i 34 anni indica infatti come il 65% preferisca comunicare con i propri coetanei attraverso servizi di messaggistica istantanea (WhatsApp in primis) piuttosto che parlando al telefono; la percentuale sale al 74 fra i millennials e gli iGen di lingua inglese (Stati Uniti, Regno Unito e Australia) e scende di poco in Francia, Germania e Giappone («The Digital Lives of Millennials and Gen Z», LivePerson, 2017).
«Se siete come me, la vostra ultima telefonata risale più o meno al 2007, a meno che non siano la mamma o il papà a chiamarvi» scrive Natalie Ktena, giovane giornalista della BBC. «Passavo ore a chiacchierare con i miei amici, la mamma doveva letteralmente strapparmi il telefono dalle dita. E ora? La mia suoneria è permanentemente in modalità silenziosa, l’arrivo di una chiamata mi riempie di un misto di timore e sospetto e, sarò onesta, più di una volta mi è capitato di lasciare suonare il telefono a vuoto (so di non essere la sola)». Nel novembre dello scorso anno, Ktena ha fatto un esperimento: ha deciso che per sette giorni non avrebbe scritto sms né messaggi di alcun genere, compresi i commenti sui social; per contro, ogni volta che qualcuno l’avesse contattata, lei avrebbe risposto con una telefonata.
La cronaca della settimana di «detox» è divertente e a tratti illuminante: dal disappunto nel constatare che alcune persone semplicemente non rispondono più al telefono alla realizzazione che, una volta superato lo «shock» iniziale, la maggior parte degli amici è invece lieta di scambiare qualche parola «in viva voce», la giornalista giunge al settimo giorno riferendo di «sentirsi più connessa alla vita reale». Una sensazione tutto sommato piacevole, che la porta a rivalutare i pregi della conversazione telefonica («It’s good to talk: Why the phone call needs to make a comeback», BBC Three, 29 novembre 2018). Tuttavia, se la tecnologia gioca un ruolo importante nella dismissione delle telefonate a favore della messaggistica, altri fattori contribuiscono
a rendere il piano ancora più inclinato e uno di questi è probabilmente l’ansia.
«A differenza della telefonata, il messaggio consente all’utente di sottrarsi alla molteplicità di stimoli a cui bisogna prestare attenzione nell’interazione che si svolge in tempo reale per concentrare le proprie risorse cognitive sull’unico compito di comporre il testo, avendo così la possibilità di calibrarlo nel dettaglio per comunicare esattamente l’immagine di sé che si vuole trasmettere.» (Reid & Reid, «Text or Talk? Social Anxiety, Loneliness, and Divergent Preferences for Cell Phone Use», CyberPsychology & Behavior, 2007). Questo «vantaggio» è percepito come strategico dalle persone che soffrono, in misura minore o maggiore, di ansia sociale: quella combinazione di paura e apprensione generata dall’aspettativa di non riuscire a fare una buona impressione sugli altri, soprattutto se si tratta di estranei incontrati in contesti pubblici (dalla sala conferenze all’ascensore). L’ansia sociale è un disturbo in crescita nella popolazione generale, presso i giovani in particolare, e l’uso degli smartphone sembra favorirla, configurandosi contemporaneamente come causa ed effetto.
In un’epoca caratterizzata dalla progressiva smaterializzazione delle relazioni sociali, con il conseguente disabituarsi alla complessità cognitiva, emotiva e sensoriale comportata dal rapportarsi personalmente a qualcuno, l’interazione «vis-à-vis» – e quindi anche quella «voce-a-voce» – può infatti rivelarsi ansiogena, innescando reazioni di rifiuto o evitamento suscettibili di cronicizzare il problema. Una variante specifica dell’ansia sociale consiste proprio nel provare un forte disagio nel parlare al telefono, disagio amplificato in maniera esponenziale se ciò avviene in pubblico. In queste circostanze la voce viene infatti ascoltata, o comunque sentita, sia dalla persona con cui si parla che dagli sconosciuti a portata di orecchio, così che la temuta eventualità di un giudizio negativo appare alla persona fobica ancora più probabile.
Se questa eccessiva preoccupazione rimanda a criticità peculiari nel rapporto con sé stessi e con gli altri (due cose che di solito procedono di pari passo), l’elemento su cui si innesta è però oggettivamente «sensibile»: «La voce umana è una ricca e complessa fonte d’informazioni per l’ascoltatore», afferma infatti Nadine Lavan, psicologa ricercatrice («Flexible voices: Identity perception from variable vocal signals», Springer Link, 2018). Secondo Lavan, nel parlare le persone convogliano intenzionalmente (sebbene in maniera perlopiù automatica) significative informazioni non-verbali relative a sé stesse e alle loro intenzioni, informazioni che gli ascoltatori decodificano (altrettanto automaticamente) per comprendere quanto viene detto prima ancora di avere afferrato il significato delle parole. Accanto a quella intenzionale vi è poi la modulazione spontanea, involontaria della voce, particolarmente evidente nei colloqui ad alto coefficiente emotivo: riconosciamo senza doverci pensare uno stato d’animo ansioso dalla velocità dell’eloquio, uno depresso dal suo essere rallentato e «atonico», uno spaventato dall’alta frequenza del tono, e così via.
La voce dunque rivela molto di noi e di come stiamo: è espressione della nostra identità, tanto che ciascuno possiede un’impronta vocale unica, analogamente a quella digitale. Una soluzione di compromesso capace di aggirare l’ansia generata da una conversazione «in presa diretta», salvaguardando al contempo il carattere insostituibile e personale della voce umana è rappresentato dai messaggi vocali: una forma di comunicazione forse non a caso sempre più diffusa. Li conosciamo tutti: è un’opzione di WhatsApp – subito adottata dagli altri servizi di messaggistica istantanea, come Telegram – che permette di registrare i messaggi invece di scriverli. Questi micro-monologhi che non prevedono interlocuzione, se non in modalità dilazionata, consentono infatti di sentire la voce dell’altro senza preoccuparsi di replicare in tempo reale, cercando qualcosa di «intelligente» o quanto meno «appropriato» da dire. Si tratta in un certo senso di una forma di dialogo paradossale, perché costituito da due serie di monologhi paralleli che si intersecano e si rispondono senza diventare mai un colloquio. Uno «scollamento» che, sebbene si presenti sotto forme diverse, sembra rappresentare la cifra distintiva della socialità digitale.