Si scrive ‘brain rot’, si legge cervello marcio

È un fenomeno sempre più diffuso, al punto che l’Oxford Dictionary ha eletto questo termine a parola dell’anno 2024. Ma di che cosa si tratta?

Di Mirko Sebastiani

Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione

Ricercatori di diversi istituti universitari sono concordi: i social fanno ‘marcire’ il cervello, soprattutto quello delle giovani generazioni (l’alfa in particolare).
Il fenomeno è sempre più diffuso, tanto che l’Oxford Dictionary ha eletto a parola dell’anno 2024 proprio ‘brain rot’. Ma di che cosa stiamo parlando?

A tutti sarà capitato di avere a che fare con persone – spesso, ma non esclusivamente, più giovani – che sembrano essersi completamente rimbecillite a furia di usare il telefonino. Individui con cervello ridotto in pappa dall’abuso di contenuti di qualità bassa e di durata ancora più inferiore, proposti in rapida sequenza da piattaforme social come TikTok, Instagram, YouTube. Capita pure che, a volte, quella persona siamo noi, mentre ci rendiamo conto con spaesamento di aver appena buttato via tre quarti d’ora a scrollare video da pochi secondi l’uno, senza che nessuno di essi ci abbia arricchito in alcun modo. Un po’ come quando ci si abbuffa di cibo spazzatura e la nausea e il senso di colpa ci fanno capire di aver esagerato. Si tratta di un fenomeno che il mondo anglofono ha battezzato brain rot (cervello marcio): un termine che l’Oxford Dictionary ha persino eletto a parola dell’anno 2024, complice il fatto che il suo utilizzo sia aumentato del 230 per cento rispetto al 2023.

Fenomenologia del marciume cerebrale

Il termine brain rot può avere significati differenti a dipendenza del contesto. Se utilizzato per esempio nel contesto della cultura di internet – ossia quella nella quale la maggior parte delle informazioni è veicolata dai meme –, brain rot indica in particolare le tendenze digitali seguite dalla generazione alfa, ossia quelli nati tra il 2010 e il 2024, ma può anche indicare la stessa tipologia di contenuti generalmente indirizzata a loro. Nota a margine: le persone nate a partire da quest’anno verranno collocate nella generazione beta, un nome che è tutto un programma.

Il brain rot identifica anche la forma di slang e modi di esprimersi derivati da meme, videogiochi e serie tv (se i vostri figli vi dicono che non siete sigma, sappiate che non è un complimento). Indica infine gli effetti collaterali dall’abuso dei social, ossia una soglia d’attenzione estremamente bassa e una dipendenza da questi contenuti al limite del patologico.

Mentre non è di certo una novità che ogni generazione inventi, per così dire, il proprio modo di parlare, lo è – una novità – il fatto che questo slang provenga esclusivamente dal consumo di contenuti dalla dubbia qualità. La generazione alfa è infatti la prima a venir esposta sin dall’infanzia a social come TikTok – un sinonimo talvolta utilizzato per brain rot è proprio TikTok brain –, che offre video di pochi secondi sovrastimolando i recettori della dopamina, con la conseguenza che il cervello necessiti di stimoli continui per mantenere l’attenzione.

Se vi è mai capitato di vedere video dove sullo sfondo si vedono scene di videogiochi o video senza senso, sappiate che sono pensati per mantenere attiva l’attenzione dell’utente, dato che un testo da leggere o un tizio che parla potrebbero non essere abbastanza avvincenti da poter essere seguiti per intero, anche se il video dura meno di un minuto.

Emblematica fu la dichiarazione dell’attrice Millie Bobby Brown (quella che faceva Undici in Stranger Things), quando in un’intervista disse di non guardare mai film perché “se non sto facendo nulla, non riesco a star lì a guardare uno schermo così a lungo”. E se lo dice un’attrice…


© Keystone
L’attrice di ‘Stranger Things’ Millie Bobby Brown

L’abuso dei social riduce la materia grigia

Purtroppo però, qui non si parla unicamente di non riuscire a rimanere concentrati abbastanza a lungo da godersi un film. Una ricerca, condotta da istituzioni come la Harvard Medical School, l’Università di Oxford e il King’s College di Londra, rivela infatti che l’uso eccessivo dei social media può ridurre la materia grigia, accorciare la capacità di attenzione, indebolire la memoria e intaccare le funzioni cognitive fondamentali. A farne le spese, come già detto, sono specialmente i più giovani: secondo uno studio, in Europa, 4 adolescenti su 5 utilizzano ogni giorno i social media, mentre 1 su 10 rischia di sviluppare un utilizzo problematico. I social infatti possono costituire una vera e propria dipendenza, con tutti i sintomi del caso: incapacità di controllarne l’utilizzo e crisi d’astinenza quando non si è connessi, con effetti collaterali come ansia, depressione, disturbi del sonno e disfunzioni sociali, come per esempio incapacità di affrontare il mondo reale e conflitti interpersonali. Per non parlare di quanto sia facile cadere nella trappola delle fake news in un ambiente del genere, finendo con l’avere una visione distorta della realtà.

Anche in Svizzera il fenomeno si fa sentire, seppur in maniera meno marcata. Un rapporto del World Internet Project Switzerland evidenzia infatti che il 26% degli svizzeri utilizzatori di internet ritiene di sprecare tempo online a discapito di attività più importanti. Inoltre, il 24% riconosce di passare più tempo in rete di quanto desidererebbe.

La pandemia ha esacerbato il problema

Non è certo un caso che questo fenomeno sia diventato così prominente negli anni successivi alla pandemia. Durante i lockdown, molti giovani e giovanissimi non hanno avuto altro rifugio se non i social, unici luoghi in cui era ancora possibile intrattenere delle relazioni interpersonali al di fuori della propria famiglia. Non c’è dunque da stupirsi che la generazione che ha trascorso parte dei propri anni formativi quasi interamente online, ora presenti questa forte dipendenza. Uno studio condotto a livello nazionale ha mostrato che la riduzione delle interazioni sociali fisiche ha portato a un aumento del senso di isolamento, con effetti negativi su aspetti come la solitudine e lo stress, ed è pure stato rilevato come i social venissero utilizzati come mezzo di distrazione da queste emozioni negative. Il problema è che molte persone utilizzano tuttora queste piattaforme come forma di escapismo, esattamente come si potrebbe fare con alcol e sostanze stupefacenti.

Un fenomeno da non sottovalutare

Cosa fare dunque per arginare la problematica? Prendersela con i più giovani perché passano troppo tempo al telefono, probabilmente, non porterà ad altro che a un maggior senso di distacco. Anche perché, a dirla tutta, non è che loro abbiano esattamente una colpa. Non bisogna dimenticare che dietro a queste applicazioni ci sono aziende multimiliardarie, che investono un sacco di soldi e risorse per fare in modo che la gente utilizzi i loro prodotti il più a lungo possibile. Per loro, il fatto che i social creino dipendenza fa solamente bene agli affari. Non per nulla, molte delle persone che lavorano in questa industria non lasciano che i loro figli si iscrivano ai social che loro stessi hanno contribuito a creare. Da non dimenticare infine che questo fenomeno può colpire qualsiasi fascia d’età.

Anziché stigmatizzarlo, bisognerebbe capire le origini del problema. Cercare forme di dialogo alternative e, con sforzi consapevoli, cercare un equilibrio tra uso della tecnologia e interazioni con il mondo reale. Si possono per esempio mettere in pratica delle tecniche di mindfulness, utilizzare delle applicazioni che limitino l’accesso ai social in determinate fasce orarie e cercare degli hobby e passatempi che siano ugualmente stimolanti e gratificanti. E, forse, sono le stesse generazioni più giovani a poterci guidare in questo panorama digitale, alla ricerca di un utilizzo della tecnologia che non ci faccia marcire il cervello.


© Depositphotos

Articoli simili