Disavventure Latine. Ecuador: Galápagos, ‘islas encantadas’
È solo quando ci arrivi e le osservi da vicino che capisci davvero cosa intendesse Darwin quando scrisse: ‘Sembra essere un piccolo mondo a sé stante’
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Mi avevano detto che non c’era niente da vedere, che era brutto, sporco e cattivo. Che si mangiava male e beveva peggio. Che mi sarebbe costato troppo e mi avrebbe dato indietro poco. Che a un certo punto mi sarei chiesto – arrabbiato con me stesso – perché non il Brasile, le Canarie, l’Appenzello Interno. O il Molise. E che se volevo rischiare la pelle potevo almeno evitarmi un volo di dodici ore, visto che ci si può far ammazzare molto più vicino, se proprio ci tieni. Mi avevano detto che non si poteva uscire la sera, e forse nemmeno di giorno, che non si poteva prendere un autobus né entrare allo stadio. Così sono andato a vedere davvero com’è, l’Ecuador: senza ignorare i pericoli (che ci sono, eccome), ma abbracciando – ricambiato – tutto il resto. Ne è valsa la pena. Ve lo racconto qui.
Ho appena finito di nuotare con uno squalo. Uno squalo vero. Sono seduto su una panchina. In quella accanto c’è un leone marino che sonnecchia. Ci sono leoni marini dappertutto. E sto pensando all’intelligenza – se così si può chiamare – di un tipo di cactus che è cresciuto abbastanza da non far mangiare le proprie foglie alle tartarughe di terra. Con abbastanza intendo non un centimetro più del necessario. E ovviamente non uno di meno. Fossi una tartaruga, impazzirei.
foto © R.S.
Le Isole Incantate
È da quando sono atterrato che mi sono consegnato a uno stupore continuo, perché va bene i documentari, le guide e perfino il libro (Viaggio di un naturalista intorno al mondo) che mi sono portato appresso del testimonial d’eccezione, Charles Darwin, uno di quelli che da solo ha ribaltato il mondo usando una manciata di isole sperdute come leva.
Ma è solo quando arrivi alle Galápagos e cominci a osservarle da vicino – farne parte, in qualche modo, sebbene per pochi giorni – che capisci davvero cosa intendesse dire Darwin quando scrisse: “Sembra essere un piccolo mondo a sé stante”.
foto © R.S.
Chi le ha visitate o chi ci ha provato senza riuscirci prima di Darwin le chiamava con un nome da romanzo fantasy: Islas Encantadas. Isole Incantate: perché comparivano e scomparivano. Perché c’erano quelli che giuravano di esserci stati e quelli che non le trovavano, come noi a volte non troviamo le chiavi di casa (“Giuro che erano lì, le ho viste prima”). Era un mondo senza Gps e con carte nautiche che sembravano disegnate da bambini.
Isole Incantate era un nome perfetto per questo posto pieno di animali strani che vivono lì e solo lì, facendo cose che non farebbero altrove. Alla fine per soppiantarlo c’è voluto un altro nome evocativo, di quelli che ti si sciolgono in bocca: Galápagos, che sa di un posto uscito da I viaggi di Gulliver, prestato alla realtà e mai più tornato indietro.
Che tutto è strano lo capisci quando arrivi, anche se non sei Darwin. Intanto atterri, perché per nave, dal Continente, non ci si può più arrivare: niente crociere, niente barche di avventurieri o presunti tali. E quando atterri, atterri su un’isola, che si chiama Baltra, ma per poi trovare un posto per dormire o incrociare anima viva, dopo due ore e mezza di volo ti ritrovi su una chiatta per attraversare un minuscolo tratto di mare che – se non avessi i bagagli e una decina di cartelli che te lo vietano – potresti fare tranquillamente a nuoto.
Oltre c’è Santa Cruz, l’isola più popolata di tutto l’arcipelago (12mila abitanti su un totale che non arriva a 25mila). Dall’altro lato dell’isola c’è Puerto Ayora, la base per ogni tipo di escursione o crociera, di un giorno o di settimane, fino all’angolo più remoto di un arcipelago che sarebbe già abbastanza remoto di suo: le isole Wolf e Darwin. Talmente lontane da non entrare nelle mappe standard. Sull’isola di Wolf l’uomo ha messo piede per la prima volta nel 1964 (calandosi da un elicottero) appena cinque anni prima di passeggiare sulla Luna.
Puerto Ayora è l’avamposto, il simulacro di una città di una terra che chiaramente ci dice, a ogni passo, a ogni bracciata, di voler continuare a essere altro e cambiar forma seguendo regole tutte sue, come i cactus, le iguane o le zampe delle sule (azzurre – di un azzurro che sembra dipinto – quelle che mangiano pesce; rosse – di un rosso che vedi solo nei fumetti o sulle foto Instagram in cui il livello di saturazione è finito nelle mani sbagliate – quelle che mangiano gamberi). In ogni aspetto, evidente o sottotraccia, la diversità con la terraferma e con le isole che non ce l’hanno fatta a diventare Galápagos resta.
foto © R.S.
La meraviglia di un allunaggio e il suo prezzo
Entrare in connessione con le Galápagos però costa caro: in denaro, ovviamente (e tanto, solo la tassa d’ingresso è di cento dollari se sei straniero, a differenza dei soldi che sborsa un ecuadoriano), e in fatica, con levatacce all’alba per raggiungere le isole più lontane.
Tra le immagini più stranianti dell’intero viaggio ci sono queste lunghe e disordinate file di persone con un biglietto in mano scarabocchiato come la ricetta di un medico che provano a capire su quale barca devono salire: il fatto che si possa prenotare attraverso decine di agenzie diverse, con prezzi (molto) diversi per le stesse barche rende il tutto, se possibile, ancora più caotico.
Se non hai un budget illimitato devi trattare, scegliere, fare rinunce e calcoli. Per andare all’isola Bartolomé (la più bella e fotografata) con andata e ritorno in giornata ho speso 300 dollari: tantissimi, troppi, eppure lo rifarei domattina nonostante il mare grosso e il cibo a bordo di qualità mediocre. La fauna a bordo era varia almeno quanto quella che ho poi visto in mare, dal tour operator arrivato da Guayaquil che le prova tutte per far colpo sulla guida del posto con rime di dubbio gusto e nessuna efficacia fino all’olandese che chiede diecimila consigli su come fare snorkeling e dopo dieci secondi risale a bordo spaventato per non tornare in acqua mai più. Arrivare a Bartolomé, nuotarci intorno e poi camminarci sopra contiene la meraviglia di un allunaggio. Mentre sei lì vedi l’unica specie di pinguini a vivere sopra la linea dell’Equatore e altri animali assortiti, ma soprattutto vedi te stesso in un mondo e in un modo diversi. E quello vale più di 300 dollari e il rischio di vomitare su uno yacht.
Nel cestello della lavatrice
Il lato oscuro delle escursioni l’ho vissuto invece andando a Isabela, una delle altre tre isole abitate dell’arcipelago. Il ferry, ovvero “traghetto” che ti viene promesso per lo spostamento, è una bagnarola chiusa che va a una velocità a cui forse non dovrebbe andare. Il viaggio, ti dicono che dura più di due ore senza specificare che sono in realtà quasi tre: al contrario del tragitto per Bartolomé dove ogni battito di ciglia è un millisecondo rubato all’incanto, non vedi nulla. Se ti mettessero nel cestello di una lavatrice sarebbe più o meno la stessa cosa. Con la differenza che accanto, nel cestello, c’è gente che prega dalla strizza che gli ha preso. Arrivato a Isabela il ragazzo che mi prende in carico non solo sbaglia escursione e posto per il pranzo, ma a un certo punto si accorge di non guidare l’auto giusta e torna al punto di partenza per scambiarla, ma visto che il tempo è contingentato taglia mezzo tour. In più piove e so che al ritorno mi aspettano altre tre ore nel cestello della lavatrice modalità centrifuga. Dovrei lamentarmi, ma non lo faccio, ho troppa voglia di non perdermi il resto quando arrivo. Se arrivo. Ma alla fine arrivo. E il resto sono iguane sonnacchiose, petti di fregate gonfi e colorati, granchi rosso fuoco e tartarughe giganti, compreso il corpo imbalsamato di Lonesome George, la testuggine simbolo delle isole, ultimo della sua specie, morto nel 2012 e poi mummificato come un Papa.
foto © R.S.
Onda ‘galapagueña’
L’ultima mattina mi sveglio presto per essere il primo nella spiaggia di Tortuga Bay. Ci sono solo io e tutti questi animali diversi, uno accanto all’altro: altrove probabilmente si ammazzerebbero o almeno si terrebbero lontani, diffidenti, mentre qui stanno a pochi centimetri. Lo permettono anche a me. Non hanno nessuna paura dell’uomo perché l’uomo qui non può far loro nulla: ci sono multe salatissime per chi maltratta un animale. E la galera. Ma solo che ti possa venire in mente – in generale, ma soprattutto in un luogo così – è follia.
L’ultima sera entro nel birrificio locale: davanti a me un boccale pieno, il quadro di un sax con dentro un’iguana, una finestra che dà sul mare, la scritta La Galapagueña sul muro, un ventilatore che fa il suo dovere pigramente e in sottofondo Imagine. Non siamo male nemmeno noi umani. Almeno quelli più evoluti.