Portogallo. Una giornata con i leoni dell’onda

Originario della Polinesia, proibito in epoca coloniale dai missionari per via della nudità dei praticanti, pure lui si è globalizzato (problemi inclusi)

Di Duccio Canestrini

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Li vedi la mattina, in spiaggia o nei giardini, mentre fanno ginnastica pre-surfistica. Si muovono con il torso della muta calata in vita, che sembrano animali mezzi scuoiati con la pelle penzoloni. Giovani, perlopiù. Ma anche persone con i capelli grigi, e le guance verdi di crema protettiva. È l’esercito del surf, arruolato dalla voce del mare, sulle spiagge di Peniche e Baleal, un’ora di corriera da Lisbona viaggiando verso Nord.

Al supermercato ci sono metri di scaffali di cibi naturali, integratori, latte di soia, torte di carote, burger di spinaci, tisane depuranti, snack vegani. Ma di fronte sta uno scaffale lungo il doppio di alcolici, vini e birre di ogni marca e una vasta scelta di liquori. E già così si capisce l’onda. Anzi si distinguono le due tribù: da una parte i surfisti salutisti, che vanno in spiaggia la mattina presto, dall’altra quelli che bevono parecchio e la sera fanno baldoria fino a tardi. Sono due tribù tranquille che convivono e non cercano guai. Oltre alla dieta li distingue la scelta dell’alloggio, spartano o lussuoso: chi sta in camper o in camere in affitto condiviso, e chi invece dorme in hotel o in bed&breakfast. Tutte strutture ricettive che negli ultimi anni sono spuntate come funghi.


Il surf non ha età…

Muri d’acqua e altre storie

Nella primavera di quest’anno il campionato della World Surf League si è svolto proprio qui, dove le onde dell’oceano schiaffeggiano il litorale. Su questa magnifica costa si alterna una corazza di scogli taglienti a un morbido gioco di dune giganti. Una meraviglia geologica del Giurassico. Era la meta di villeggiatura dei portoghesi benestanti. È diventata la Mecca degli appassionati della tavola da surf. Originario della Polinesia, proibito in epoca coloniale dai missionari per via della nudità dei praticanti, il surf in Europa si afferma tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. È uno sport da innamorati del mare. Una passione che comporta la confidenza con le onde che arrivano in serie numeriche, la conoscenza delle maree e dei fondali che fanno impennare i cavalloni. Poco distante da qui, a Nazaré, nel 2017 è stato registrato il Guinness dei primati per l’onda più alta mai surfata (da un campione brasiliano): un muro liquido alto 24 metri. Quando sulla spiaggia Supertubos di Peniche il mare si arriccia, formando enormi bigodini bianchi, il pensiero corre al film culto Un mercoledì da leoni (1978) che raccontava i drammi e le gioie di alcuni amici tra le onde della California. E all’americana è stato il boom anche qui, dove ogni anno fa tappa il campionato mondiale della specialità. Una bolla di speculazioni edilizie, urbanizzazione selvaggia, architettura standardizzata, costo degli affitti alle stelle e naturalmente noleggio, negozi e scuole di surf ogni venti metri.


Spiaggia a Baleal.


Lezioni di surf.

Un fenomeno globale

C’è tuttavia un aspetto socio-antropologico che pochi hanno analizzato. I surfisti locali non sono sempre felici dell’afflusso di sportivi da tutto il mondo. Ci sono regole non scritte che stanno alla base del rispetto: consuetudini, spiaggette e orari riservati, che per chi viene da fuori è meglio conoscere. Un giorno, sul promontorio di Opoa, i surfisti autoctoni, per mettere nei guai un giovane straniero che aveva sconfinato, hanno ritirato la scaletta di ferro necessaria per risalire, lasciandolo in balia dei marosi, a rischio di essere sbattuto sugli scogli. Ma raramente ci sono stati episodi di violenza. Più frequenti, invece, i battibecchi estivi tra surfisti e famigliole di bagnanti portoghesi.
Tralasciando le acrobazie e le performance spettacolari sulla cresta delle onde, è interessante volgere lo sguardo anche alla terra ferma. Cioè allo stile di vita tradizionale che il turismo soprattutto surfistico ha rivoluzionato. Peniche era un tranquillo villaggio dove i figli dei pescatori e dei contadini ovviamente pescavano e coltivavano i campi. Oppure lavoravano nell’industria conserviera del pesce. Oggi fanno gli affittacamere, i baristi e gli istruttori di surf. Il turismo surfista è divenuto una monocultura. Le attrattive dell’entroterra sfuggono ai più. A pochi interessa la storia dei naufragi, della vecchia fortezza, dell’artigianato tipico dei merletti, famoso in tutto il Portogallo. Pochi visitano il Museo della Resistenza (peraltro chiuso da anni, riaprirà nel 2024). Tutto questo non accade soltanto a Peniche, beninteso. È uno schema che si replica un po’ in tutto il mondo, dalle spiagge del Messico a quelle dello Sri Lanka, dal Marocco a Bali. Sicché tocca tirare in ballo la benedetta sostenibilità. È pur vero che i surfisti sono sensibili alla bellezza dell’ambiente e non sporcano le spiagge che amano. Ma la sostenibilità ha diverse facce, non solo quella ambientale. Tra i residenti di Peniche non manca chi dice, fuori dai denti, che si stava meglio prima, quando era un posticino tranquillo. Non sarà a causa del solito malinteso? La crescita dei numeri non vuol dire necessariamente sviluppo.


Locandina campionato della World Surf League in Portogallo.


Murales a Baleal.


Peniche; il castelletto Surf Castle hotel per surfer.


Tutto per cavalcare l’onda, direttamente sulla spiaggia.


Peniche.

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