Educare: sì certo, ma come?

La grande insicurezza che contraddistingue questi decenni ha conseguenze dirette e molto importanti su come cresciamo i nostri figli

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Genitori elicottero, genitori spazzaneve, genitori narcisi, genitori tossici. Mamme tigri, papà lupi e papà gatti. Una volta era tutto più semplice, prima dell’avvento del dottor Spock. No, l’alieno con le orecchie a punta non c’entra. Benjamin Spock, con il suo Common Sense Book of Baby and Child Care (la prima edizione data 1946) è considerato il padre dell’educazione permissiva. Un eroe, per alcuni; un portatore di caos, per altri. 
Una volta era tutto più semplice perché prestabilito: il rigido autoritarismo genitoriale riservava poco spazio all’interpretazione. Oggi invece si spazia, si cerca disperatamente una collocazione nel vasto universo dei genitori moderni. Pendiamo dalle labbra degli esperti – che, in realtà, si muovono un po’ schizofrenici tra le lodi al sonno indipendente e l’esaltazione del co-sleeping – siamo tutti alla ricerca affannosa di una bussola, di un libretto d’istruzioni per gestire la quotidianità e le emergenze, per riuscire a distinguere i bisogni dai desideri, per imporre il controllo lasciando spazio all’autonomia. 
E siamo tutti pervasi da un comune senso di fallimento generazionale. Di inadeguatezza. Di fronte ai nostri figli, e di fronte alla società. Che ci accusa con occhio torvo, lasciando presagire catastrofi imminenti: siamo pessimi educatori in marcia verso il baratro, ci dicono. Ci vuole più educazione. La si chiede, la si brama, la si esige. 

Il mondo di domani
Partiamo dalle basi. L’educazione – come la socializzazione – ha storicamente il compito di conformare le persone al più alto grado di prevedibilità. Perché una società prevedibile ha un vantaggio non trascurabile: è garanzia di sicurezza. Rischia però di mortificare la realizzazione personale. I bambini, si sa, sono imprevedibili e originali, e a renderli conformi agli standard è proprio l’educazione. Che altro non è che il mezzo attraverso cui si crea una sorta di super io sociale. Ma questa, dobbiamo esserne consapevoli, è la perversione del significato originale e autentico di educare. Dal latino ex ducere, tirare fuori, ossia fare in modo che in una relazione ognuno possa esprimere il meglio di se stesso. Mentre educare viene ormai utilizzato come sinonimo di formare, ossia l’esatto contrario: inserire in una forma, riempire, modellare. 
Già il fatto d’inserire qualcuno in una forma presuppone di avere un’idea precisa dell’essere umano, della sua essenza. E questo pone qualche problema di ordine ideologico. Ma soprassediamo. Il vero problema è che quella forma – qualsiasi essa fosse – non c’è più. È stravolta dai cambiamenti epocali in atto. Dalla crisi identitaria. Dalla liquidità sociale che ci impedisce di leggere il nostro tempo con chiarezza.
L’inedita velocità del cambiamento a cui tutta la società è stata sottoposta nel Novecento, in ogni contesto e in ogni relazione, rende impossibile utilizzare codici comunicativi e comportamentali a noi noti, e ci costringe a elaborare in continuazione nuovi schemi di pensiero. Ma non sempre ci riusciamo. E di fronte a queste difficoltà rischiamo di rimanere frastornati, immobili, frustrati dalla consapevolezza di non essere capaci di comprenderlo fino in fondo, questo cambiamento. E di non poter immaginare il futuro in cui vivranno i nostri figli, quel mondo di domani a cui dovremmo essere in grado di prepararli. 

Genitori senza bussola
Il tipo di educazione dominante nella nostra società sembra oscillare tra seduzione e coercizione. Seduzione perché non sappiamo fare i genitori. E non perché non sappiamo imporre regole, ma perché l’impossibilità di immaginare la società in cui vivranno i nostri figli ci rende insicuri. E ci porta a fuggire il confronto per evitare il contrasto. «Non so che fare, fai un po’ quello che ti pare». Mentre i bambini e i ragazzi hanno bisogno di contenimento: che non è fermezza, bensì chiarezza di ruoli. 
E poi, di segno opposto, c’è la coercizione. Si cercano sicurezze nell’ordine, nella disciplina, nell’autoritarismo. Nel passato, insomma. La quasi totalità dei genitori è convinta che se non si plasma, non si disciplina, non si contiene, non si raddrizza, non si corregge, non si punisce il bambino si va incontro alla catastrofe comportamentale nell’adolescenza e nell’età adulta. E allora il bambino docile e obbediente diventa sinonimo di bravo bambino, quello che Alice Miller chiamava il bambino drammaticamente dotato, in grado di riconoscersi in tutto e per tutto nel progetto educativo del genitore. Una docilità da ottenere con ogni mezzo. Anche violento. 
I bambini sono l’unico gruppo sociale – il più indifeso – contro cui è lecito usare violenza fisica: la chiamano violenza educativa ordinaria. Violenza pedagogica. Violenza moderata a fini formativi. Correzione. Un fenomeno largamente diffuso e tollerato, se non addirittura sostenuto. 

Superare l’autorità
Insomma, il problema siamo noi adulti, non certo le generazioni in crescita. I bambini vanno solo rispettati, soddisfatti nei loro bisogni e messi nelle condizioni di esprimere il loro potenziale. E a noi genitori tocca il compito di porci il quesito giusto, l’unico, che non ha niente a che vedere con la quantità di verdure da proporre o con le ore da concedere davanti alla Playstation. 
La domanda è questa: che tipo di persona vogliamo crescere? L’agire pedagogico deve avere un’intenzionalità. Sempre. Il come poco importa, è il perché che conta. Se penso che la principale virtù del bambino debba essere l’obbedienza, la capacità di fare senza discussioni quello che gli viene chiesto, allora lavorerò per ottenere un bravo bambino, che non crea problemi, che reprime sentimenti di difficile gestione come la collera, la rabbia, la paura. Ma così otterrò anche un figlio predisposto a incorporare i modelli valoriali e comportamentali che l’autorità impone. E da adulto delegherà con maggior facilità le proprie scelte ad altri, con tutto ciò che questo comporta in termini di società, di consumi e di scelte politiche. Si chiama omologazione. Se invece voglio un figlio autonomo, in grado di autoregolarsi, di porsi degli obiettivi, con un buon senso critico e che non si faccia influenzare, beh, agirò diversamente. Cercherò di essere un genitore rassicurante – in quanto adulto con un’identità chiara – e non autoritario. 
Per la mamma tigre e il papà lupo potrà essere sconvolgente, me ne rendo conto. Ma d’altra parte le persone autonome e pensanti che ne risulteranno faranno bene a tutto lo zoo. 

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Scuole: oltre i modelli dell’istruzione pubblica
(di Francesca Mandelli e Sara Rossi Guidicelli)

Ci sono genitori che in casa hanno adottato una «pedagogia diversa» e vorrebbero trovare a scuola una continuità: un insegnamento che non sia basato su un sistema di premiazione-valutazione-punizione-competizione, ma su un’idea che ogni giorno è diverso, ogni anno, ogni bambino. Queste «scuole alternative» credono che la vita sia già di per sé una scuola e che i maestri possano essere le associazioni, gli esperti nelle varie materie: artigiani, agricoltori, scienziati, scrittori, persone di differenti mestieri e campi di studio; pensano che l’apprendimento venga da sé, se stimolato nel modo giusto e che la suddivisione per classi di età sia da rivedere. L’importante, per loro, è realizzare il potenziale di ogni bambino, sviluppare in lui curiosità e spirito critico e farlo sentire amato.
I grandi classici dei percorsi alternativi sono i metodi Montessori e Steiner, caratterizzati da un profondo rispetto del bambino, considerato nella sua complessità e completezza, individuale, creativa e spirituale. Un rispetto che si traduce nella promozione dell’indipendenza e nella concessione al bambino della libertà di scelta del proprio percorso educativo (entro limiti codificati). Alla base del Metodo Steiner, in particolare, si trova l’Antroposofia, ovvero la convinzione che la pedagogia debba basarsi principalmente sulle esperienze di vita. Nella Svizzera italiana gli operatori che s’ispirano al metodo Montessori sono riuniti nell’associazione Montessori Net Ticino. Offrono un percorso scolastico sino alla fine delle Elementari. Sono invece 32 in Svizzera – Ticino compreso – le scuole Rudolf Steiner e 93 le offerte pre-scuola, frequentate da 7’000 allievi. A Lugano c’è un istituto che comprende gruppi bambino, nido, asilo, scuola primaria, media e biennio superiori, mentre la sede di Minusio comprende un asilo nido, due sezioni di asilo, la scuola elementare e la scuola media fino alla 3a classe.
Ci sono poi le scuole democratico-libertarie, in cui le relazioni finalizzate all’apprendimento sono organizzate attraverso istituzioni di democrazia partecipata. Non esiste un insegnamento codificato, ma sono gli allievi stessi che insieme ai docenti scelgono e organizzano le materie di studio, i metodi di apprendimento e le regole. Esperienze del genere sono numerose in tutto il mondo; in Ticino l’Associazione Scuola Aurea con sede a Osogna si sta attivando per aprire una scuola elementare libertaria. Avrebbe dovuto nascere una scuola elementare a Biasca nel settembre scorso; c’erano l’autorizzazione cantonale, il gruppo di famiglie partecipanti e un contratto sulla parola con la proprietaria dello stabile in cui sarebbe potuta nascere la sede. Ma pochi mesi prima dell’inizio scolastico, la proprietaria ha cambiato destinazione alla casa. Ora il gruppo si sta attivando per cercare un altro posto e nel frattempo ha organizzato un convegno sul metodo libertario a Locarno, un «dopo non-scuola» nel Bellinzonese da gennaio e autoformazione proprio sulla filosofia di Alexander Neill, pedagogista scozzese che ha creato la famosa Summerhill School nel 1924, la quale a sua volta ha dato il via a diverse offerte parascolastiche in Germania, Austria e Inghilterra.
Per quanto riguarda la scuola a domicilio, in Svizzera più della metà dei cantoni permettono ai genitori di occuparsi personalmente dell’istruzione dei figli in età dell’obbligo scolastico, e i bambini che studiano a casa sono circa 500, ma non in Ticino, dove l’articolo 6 della Legge sulla scuola stabilisce che «la frequenza […] è obbligatoria per tutte le persone residenti nel Cantone, dai quattro ai quindici anni d’età».
Si può andare però… nel bosco (si veda il contributo «Non pareti, ma alberi» di Samantha Dresti, Ticino7 n. 24/2018, ndr). Un po’ in tutto il cantone  esistono scuole dell’infanzia che prevedono che i bambini stiano sempre all’aperto, con il bello o il brutto tempo. Un’immersione nella natura che favorirebbe l’attivazione dei processi cognitivi. L’idea è nata nei Paesi scandinavi negli anni Cinquanta, si è estesa a tutta l’Europa negli anni Novanta e si sta sviluppando anche in Svizzera. In Ticino ci sono diverse esperienze di questo genere, non proposte in modo continuativo, ma sotto forma di attività. Anche nel bosco le attività nascono spesso dalla curiosità dei piccoli. È un altro metodo: non si trova niente che sia già pronto, tutto va costruito e preparato. Se si vuole il fuoco bisogna prima raccogliere la legna e cercare dell’acqua per la sicurezza; se si vuole una capanna bisogna costruirla, se si ha fame di castagne è necessario sapere come aprire i ricci…

 

 

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