Supercazzole. Perché il mondo è un luogo assurdo

“Frase priva di senso che non comunica nulla (…), esposta in modo ingannevolmente veloce, forbito, a interlocutori che si intende prendere in giro…”

Di Valerio Rosa

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

“Tarapia tapioco come se fosse antani, blinda la supercazzola prematurata con scappellamento a destra?”. L’interlocutore veniva colto di sorpresa, strabuzzava gli occhi, ondeggiava, ma già il conte Lello Mascetti, nobile decaduto a capo di una masnada di attempati perdigiorno nella saga cinematografica di Amici miei, si era accreditato come ispettore tombale con fuochi fatui, o addirittura come vicesindaco, e ne approfittava per scroccare una telefonata, evitare una multa, rimediare una pulitina al parabrezza. La vocazione istintiva e insopprimibile a prendere in giro il prossimo, rintronandolo con discorsi privi di senso e di logica, rendeva il conte Mascetti un campione dell’italica arte di arrangiarsi. Arte, peraltro, non alla portata di tutti, perché una supercazzola come Dio comanda richiede una discreta faccia di bronzo, scilinguagnolo radiofonico, sensibilità lessicale e capacità di scegliere, senza pagare dazio, il contesto dell’esibizione e soprattutto la vittima a cui propinarla. In fondo, è una declinazione tutta orale dell’immortale definizione del genio, anch’essa regalata all’umanità da Amici miei: fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione. Può dimostrarsi un ottimo sistema per trarsi d’impaccio da una situazione imbarazzante: un compagno fedifrago rassicurerà la partner dopo l’ennesima scappatella; un capufficio disinnescherà la legittima ira funesta del ragazzo di bottega, che si ritene a buon diritto sfruttato, malpagato e frustrato, prima che da stagista si trasformi in stragista; uno studente universitario non abbastanza preparato impietosirà la commissione d’esame e la indurrà a mangiare la foglia.


Da sinistra: Duilio Del Prete, Adolfo Celi, Ugo Tognazzi e Philippe Noiret. Insomma, i soliti ‘amici miei’…

Cercare (almeno) la forma

A guardarla attentamente, la maschera impersonata da Ugo Tognazzi rivelava di sé molto più di quanto apparisse: la animava, oltre alla voglia di divertirsi, l’intenzione di esorcizzare la malinconia per il tempo che passa, la certezza di non avere combinato niente di buono nella vita, l’illusione di truccare le carte al destino, come se tra scherzi e risate l’uomo assurdo di Camus, un Sisifo condannato a riportare in cima il macigno rotolato ai piedi della collina, riuscisse a essere felice. Ma non solo. Il conte Mascetti aveva trovato la sua personalissima risposta alla domanda fondamentale del Novecento: come prendere di petto, senza lasciarsene travolgere, un mondo incomprensibile, esauritesi per consunzione le ideologie e le concezioni del mondo che tutto pretendevano di comprendere e spiegare ed essendo venuta meno la convinzione, forse superstiziosa, che dietro l’apparente caos di una realtà frammentata si possa percepire, se non un disegno, almeno una forma? Ecco: se Joyce si arrendeva al guazzabuglio esplorando ed estremizzando le potenzialità espressive della lingua inglese, Gadda si estenuava riproducendo l’impossibilità di trovarvi un ordine e Calvino individuava ciò che inferno non è e lo descriveva con precisione e chiarezza, dal canto suo il conte Mascetti opponeva all’insensata e a volte crudele casualità delle cose il suo grammelot. Con illustri predecessori: da Maso del Saggio che, interrogato in una novella di Boccaccio dall’ingenuo Calandrino sulla distanza del paese di Bengodi, gli risponde “Haccene più di millanta, che tutta notte canta”, alla dotta disputa tra il signor de’ Baciaculi e il signor de’ Fiutapeti nel Gargantua e Pantagruele di Rabelais (“… tutta la notte non si fece, con la mano sul boccale, che spedire bolle a piedi e bolle a cavallo per trattener le navi, poiché i sarti volevano fare, con scampoli rubati, un cerbottano per coprire il mare oceáno, il quale allora era grosso quanto una pentola di cavoli secondo l’opinione degl’imballatori di fieno, ma i medici dicevano che dalla sua urina non appariva segno evidente…”).


Noiret e Tognazzi all’opera.

Affacciati alla finestra

Passando dalle miserie della vita quotidiana alle acrobazie verbali della classe politica, la faccenda si fa meno divertente: qui si tratta di turlupinare l’elettorato vendendogli fumo, attitudine che ha permesso a una quantità inverosimile di tangheri di campare lautamente a spese della collettività e a qualche navigato e accorto statista di galleggiare più o meno dignitosamente. Sarà anche vero, come ha dichiarato Massimo Cacciari a Repubblica, che “il linguaggio politico è demagogico nella sua essenza”, poiché “il suo fine consiste nel guidare il popolo e nel convincerlo con ogni mezzo della bontà di determinate idee e prospettive”, ma non c’è da stupirsi se in Italia i giovani elettori del PD, stanchi di sentirsi presi in giro e derubati del futuro, abbiano affidato le loro speranze a Elly Schlein al grido di “basta supercazzole!”. Il rischio, in effetti, è che qualcuno prima o poi ne chieda conto, con l’ostinazione con cui Nanni Moretti in Ecce bombo (1978) affronta una giovane svagata e spiantata (“Come campi?”, “Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…”), e finisca per canzonare il re dopo averlo scoperto nudo.
Un esempio memorabile è la sintesi con cui Leonardo Sciascia amava bollare le fumose prospettive dell’eurocomunismo di Enrico Berlinguer: una finestra disegnata su un muro. A Cesare Chiericati e Claudio Pozzoli, che nel 1981 in una trasmissione dell’allora TSI gli chiesero di spiegarsi meglio, Sciascia rispose: “Significa che ti affacci e non vedi niente”. E a quel punto può anche ripetersi la nemesi del burlone che gridava “al lupo, al lupo!” e, quando il lupo arrivò davvero, nessuno gli credette. Dobbiamo di nuovo chiamare in causa il conte Mascetti, ripensando a quella scena mitologica in cui, preso dai sensi di colpa nei confronti di moglie e figlia, costrette a una vita miserabile, decide di rompere con l’amante appena maggiorenne, la disinvolta Titti, rivolgendole un discorso per una volta serio, responsabile, maturo, persino commovente. Parole da padre di famiglia, da uomo che sa prendersi, anche se con colpevole ritardo, le proprie responsabilità, e “vede chiaramente qual è il suo dovere ed è deciso a farlo anche se gli costa metà del suo sangue”. Lei lo ascolta ruminando un chewing-gum e poi, per niente impietosita, reagisce al suo commosso addio fissandogli un nuovo appuntamento galante (“Addio, merdaiolo! Ci si vede domani a mezzogiorno”), che lui accetta senza esitare, tirando solo sull’orario (“No, alla mezza! A mezzogiorno ho un pignoramento!”) e fregandosi le mani dalla soddisfazione, come se niente fosse. Anzi, come se fosse antani.


Cristina e Michele (Nanni Moretti) in “Ecce bombo” del 1978.

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