Incapace di solitudine (l’altro Gianni Brera)

Il narratore, quello de ‘Il corpo della ragassa’, ‘Naso bugiardo’, ‘Il mio vescovo e le animalesse’ e altre storie non calcistiche

Di Marco Stracquadaini

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Gianni Brera e Beppe Viola erano fatti per diventare amici, a dispetto degli anni di differenza. È terminato l’anno anniversario della morte di entrambi: Viola, nato venti anni dopo, nel ’39, è morto dieci anni prima di Brera, nel 1982. Affinità elettiva di sport e di scrittura, e affinità nel guardare alle cose della vita. Comunanza nel vivere la passione sportiva bilanciandola con una salutare distanza. La stessa che permetteva al Brera polemista, uno dei vari Brera e tra i più conosciuti, di sgretolare agevolmente qualsiasi provocazione. Distanza dall’oggetto della polemica, dal provocatore e da sé stesso.

Inizio il terzo capitolo di ‘Naso bugiardo’, il suo secondo romanzo (1977) – banalizzato più tardi, nel titolo, in La ballata del pugile suonato – pensando che la sua scrittura narrativa regge meno o non regge al tempo, ma lette due pagine mi rimangio l’impressione. Lette altre due – l’incontro del Gugia con Ehé Pum-pum e quello che segue – mi vergogno della frettolosità del giudizio. Rinunciando ai ritmi a precipizio degli articoli e degli articoli-racconto (arti-cuentos hanno iniziato a chiamarli in Spagna) e molto anche all’invenzione linguistica; riducendo la vitalità fino a misure sconosciute per lui, in cui la vitalità è quasi tutto, cosa restava? Resta un altro Brera quasi ignoto. Dalla voce bassa, intima, di cui è responsabile in parte l’amore per luoghi e per le persone della storia. E la dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che era proprio uno scrittore. La svista è avvicinarsi ai suoi romanzi – della cosiddetta trilogia di Pianariva fanno parte ‘Il corpo della ragassa’ (1962) e ‘Il mio vescovo e le animalesse’ (1983) – aspettando di trovarsi il Gianni Brera integrale e più noto.


1962

‘Plebeo’

Con tante parole che inventò, tra quelle che più di frequente pronunciava ce n’era una che trovò già fatta: “plebeo”. Si diceva “plebeo” e questo era un vezzo e una verità. E così dicendo si metteva dalla parte opposta degli “intellettuali”, che lo detestavano o lo ignoravano quasi tutti. La vita lo portò a conoscere persone di ogni classe sociale, ma la voglia e la vena di scrivere gliela davano, diceva, “i tipi” a cui si “accompagnava” fin da ragazzo, tutti antieroi di cui raccontava le antieroiche gesta. Era nato nei luoghi e nelle condizioni di quei “tipi”, ma se la vita o si vive o si scrive – altra verità quasi intera – lui volle o poté solo scriverla.

In una compagnia di amici anche esigua, specialmente in una compagnia degli anni Trenta o Venti del Novecento, c’è sempre il gradasso fino a rischiare la vita, altri che lo seguono più o meno da lontano… e poi c’è quello che guarda tutto e non si perde un dettaglio. Brera fu colto fin da ragazzo dalla coazione a fabulare e a favellare – “incapace di solitudine”, lo definisce il figlio Paolo -, per metà nata dal conversare con gli amici su tutto e su tutti, per esempio sugli antieroi locali, assenti in quel momento o passati, cosa che dà alla sua scrittura il vero passo dell’oralità. Ma la facilità alle invenzioni lessicali è solo una componente dell’esuberanza della scrittura. Lui ne dà questa genesi: quando scrivi rapidamente, a volte fino a quattro articoli in un giorno, devi improvvisare, e capita di improvvisare parole mai sentite. Ma c’è un’altra versione, sempre sua, venuta a seguito della polemica con Eco. Sono uno che “se ha dovuto inventarsi un linguaggio, non già una lingua (scherzèm minga), lo ha fatto perché non esisteva”. (Qui si vede un altro dei suoi giochi: infilare il dialetto in un inciso che diventa una vetrina).


1977

Cercando l’altro Brera

Continuo la lettura di ‘Naso bugiardo’ e mi accorgo, sorpreso, che i dubbi non sono dissolti. La storia procede lenta, si ferma. I personaggi sono vivi, delineati, i dialoghi efficaci. Le crudezze e la licenziosità quanto pregiudicano il risultato? Cerco ancora nel romanzo, senza volere, l’altro Brera? Quello breve e degli scoppiettii lessicali, pieno padrone del campo, disinvolto fino alla sfrontatezza, libero. Chiudo il libro a pag. 121 e lo riapro a caso. Leggo frasi che non mi convincono ma non so perché. Mi domando in quale capitolo della storia letteraria che non lo accolse mai potrebbe includersi Gianni Brera. Una specie di neo-realismo espressionistico? Concludo che si fa un torto di poco conto dicendo che il Brera dei romanzi è inferiore, purtroppo, agli altri Brera. Cosa che gli sarebbe e gli è dispiaciuta.

A metà tra il giornalista e il narratore ci sono i pezzi dell’”Arcimatto© la rubrica che tenne a lungo per il “Guerin Sportivo”. Stimolato nelle cronache sportive dalla massima pressione dei tempi, nella rivista è esaltato dall’assoluta libertà: dei tempi e dei temi. E resta il nome eloquente che si è scelto: Arcimatto. Allora pensi che nel triangolo Milano-Venezia-Bologna, poligono dai lati ondeggianti come si addice a luoghi paludosi, nacquero varie scritture folli o storie di follie, dalla A di Ariosto alla Zeta di Zavattini. Passando per Delfini, Meneghello, Malerba, Mastronardi, Celati, sconfinando ai “matti” romagnoli, e ritrattisti di matti: Pedretti, Guerra, Baldini. Brera scrisse molto dei luoghi e delle persone, delle bizzarrie che la grande umidità pare favorire e rendere definitive. Il paese che ha inventato per i suoi tre romanzi, Pianariva, modellato sulla nativa San Zenone al Po, ha una sostanza di pianura acquosa fin nel nome. “Sono cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti”, scrive in una pagina spesso ricordata.


1983

Il popolo

Termino la lettura del romanzo insieme a quella de Il Dio di Roserio di Testori. Il primo storia di un pugile, l’altro di un ciclista. Viene da pensare che Arbasino, quando scrive che Pasolini, Testori e anche lui, Arbasino, sono nipotini di Gadda, commette un atto di presunzione ma forse non dice una cosa insensata. Salvo la distanza abissale tra Arbasino e il popolo amato ed esaltato dagli altri due scrittori. Lo stesso vale per Brera. Ognuno dei tre è stato uno del popolo che crescendo e seguendo la passione delle parole se ne allontanava. Tranne poi cercare di tallonare proprio le parole del popolo, le sole di cui non erano più capaci. “Football, fussball in tedesco – elencava in uno dei suoi articoli, in un diverso ordine -, futbol in America del Sud, fòlber o fulbar in Val Padana”.

Non so quale titolo avrà questo articolo. Preparandolo, ne trovo alcuni casualmente. “Un taccuino durava una partita”, da una frase di Gianni Mura, mi pare bello ma non appropriato perché qui si parla del Brera narratore. “Dove l’Olona diventa Po”, forse andrebbe meglio. Come anche “Incapace di solitudine”.

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