Amrita Hospital: perché le cure sono un diritto per tutti
Viaggio alla scoperta di una struttura sanitaria privata dove sostenibilità, tecnologia e spiritualità si intrecciano. Qui i più poveri non pagano
Di Simonetta Caratti
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Manju Ka Tilla, 7 di mattina. Il formicaio si sta svegliando, profumi di spezie si mescolano alla polvere alzata da chi spazza le viuzze, dallo stupa si diffondono i mantra gutturali dei monaci, aleggiano come protettivi sulla colonia. Il sole è appena sorto sul quartiere tibetano a Delhi, una fitta nebbia, più verosimilmente una nuvola di smog, ingloba il ponte sul fiume Yamuna, che ci porta fuori dal caos cittadino. I marciapiedi sono dei dormitori all’aperto, dove intere famiglie attrezzate di cartoni, plastiche e fornelli di fortuna si preparano a una nuova giornata nella giungla della popolosa metropoli indiana. Di semaforo in semaforo, gruppi di bambini vestiti di stracci, con gli occhi attenti e i sensi in allerta circondano l’auto per chiedere insistentemente l’elemosina, a uno manca un occhio. Mi spiegano che a volte vengono menomati per suscitare più pietismo. Poco cibo, nessuna casa, nessuna istruzione, figuriamoci cure sanitarie, forse hanno una famiglia, più probabilmente un’organizzazione criminale che li sfrutta. La disumana legge degli ultimi sfila impietosa davanti ai miei occhi. Davanti a un tale oceano di sofferenza si fa largo un drammatico senso di impotenza. Aprire il finestrino e fare la carità può significare non riuscire più a ripartire con l’auto. Ogni gesto va soppesato, pensando alle conseguenze.
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I volti dell’indigenza nelle strade di Delhi.
Verso Faridabad
Il martellante clacsonare del driver che si infila ovunque pur di guadagnare qualche metro e le continue frenate non lasciano vagare troppo la mente. Dopo un’ora e mezza di slalom prendiamo la deviazione per Faridabad, dove la scorsa estate è stato inaugurato il più grande e tecnologico ospedale privato dell’India. Su uno striscione enorme, c’è scritto Amrita Hospital. Davanti a noi si staglia un complesso ospedaliero enorme, costruito seguendo una filosofia ecologica a basso consumo. Un cuore centrale e diversi stabili attorno ospitano 81 specialità, tra cui un moderno Pronto Soccorso, un palazzo dedicato alla ricerca, altri alla facoltà di medicina e agli alloggi di studenti e docenti. I numeri sono imponenti: 2’600 posti letto, 64 sale operatorie modulari e altamente tecnologiche, laboratori automatizzati, un centro di punta per pediatria (oltre 300 posti) e maternità, 534 letti di cure intensive, reparti di medicina nucleare, radiologia, cardiologia, trapianti. Tecnologia e spiritualità si intrecciano, ad accoglierci l’imponente statua di Maharshi Sushutra, considerato il padre della chirurgia indiana, il suo sguardo gentile ti accompagna fin dall’entrata dell’ospedale.
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La statua di Maharshi Sushutra, il padre della chirurgia indiana, ti accoglie all’ospedale.
Ad aspettarci c’è una sorridente giovane indiana, si chiama Shruti Saxana ed è la responsabile della comunicazione, ci scorta dentro in un labirinto di corridoi, fino all’ufficio del direttore sanitario, il dottor Prem Nair. Gestisce due ospedali dell’organizzazione umanitaria (il primo aperto nel 1998 a Kochi nel Kerala), che fa capo alla leader spirituale Amma (la madre), riconosciuta in tutto il mondo per i servizi umanitari sostenuti negli ultimi tre decenni. Un movimento con sede in Kerala, attivo in oltre 40 Paesi fatto da volontari al servizio dei poveri (vedi sotto, nda). Questo ospedale fuori Delhi è un nuovo tassello. Qui i poveri non pagano. Siamo venuti a scoprire come fanno a far quadrare i conti.
Il dottor Prem Nair.
Guarire a costi contenuti
Davanti a un fumante Masala Chai, in una sala riunioni sobria ma ben attrezzata, cerchiamo di capire come funziona. “La sfida è non sprecare risorse, sviluppare in casa strumenti diagnostici e terapie mirati ai bisogni locali a costi contenuti, per poter offrire gratuitamente cure sofisticate ai più poveri. Intanto, attraverso la telemedicina, istruiamo e curiamo la popolazione rurale”, ci spiega il dottor Prem Nair, direttore sanitario. L’obiettivo è offrire un sistema sanitario economicamente sopportabile. Un tema di attualità anche in Europa. Istruttivi gli oltre 25 anni di esperienza del medico all’ospedale Kochi che continua a dirigere: “Molti giovani morivano perché non avevano accesso al sistema sanitario. Oggi possiamo salvarli e curare complicazioni cardiache, malattie del fegato, fare dialisi, trapianti… Collaborando con lo Stato, l’organizzazione ha sviluppato a Kochi queste specialità a costi contenuti”. I numeri gli danno ragione: partiti nel 1998 con tre specialità e cento letti, ora si contano 15mila letti, centri di ricerca, università, ospedali. Ora tocca al Nord dove manca una distribuzione equa delle cure sanitarie e il 75% della popolazione vive in bidonville o in zone rurali dove manca tutto, anche le toilette.
La voce costi torna di prepotenza. Insisto: se una parte dei pazienti non paga la fattura, non si rischia di finire nelle cifre rosse? Con voce calma e scegliendo le parole con ponderazione il direttore ci spiega che gli ospedali fanno capo a risorse interne ed esterne. “I pazienti benestanti hanno un trattamento privato con tutti i comfort e pagano le terapie ricevute. Queste entrate aiutano a coprire le spese di chi non può pagare. È una solidarietà incrociata”. Poi ci sono le risorse esterne che fanno la parte del leone: “Possiamo contare su aiuti statali, su fondazioni con responsabilità sociali, sull’economia (il 2% degli introiti è dedicato a scopi sociali), su sponsor europei (anche svizzeri) e americani, grazie a loro abbiamo creato per esempio un centro pediatrico per problemi cardiaci”. La differenza tra un ospedale privato e l’ospedale Amrita è presto detta: “Le strutture private sono boutique, orientate al profitto. Noi provvediamo a un servizio sanitario a costi contenuti, nessuno qui si arricchisce, le entrate vengono usate per la struttura”. L’organizzazione conta su oltre 5mila volontari (anche diversi svizzeri), che sostengono i programmi sociali in favore dei più poveri. Oltre alle cure sanitarie, si costruiscono per esempio case, si distribuiscono pasti, si favorisce lo sviluppo dei villaggi (acqua pulita, toilette), la scolarizzazione (vedi in basso, nda). “In India non esistono aiuti sociali, chi non lavora, muore di fame”, precisa Nair.
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A sinistra, la signora Shruti Saxana, responsabile della comunicazione); a destra, il lama Tenzin Thinley del Bhutan.
La svolta della telemedicina
L’India dei contrasti sta cercando di usare la sua potenza tecnologica per raggiungere le enormi sacche di povertà. La nuova sfida digitale del governo si chiama telemedicina, per una sanità a basso prezzo che raggiunga il maggior numero di persone possibile. “Grazie alla telemedicina possiamo curare e monitorare i pazienti da remoto, anche nelle zone rurali più povere. Così gli ammalati non devono più affrontare lunghi e costosi viaggi, a decine dormono in strada davanti agli ospedali pubblici in attesa di un consulto”, ci spiega il direttore. Un sistema sperimentato negli ultimi 5 anni dall’ospedale di Kochi con pazienti che vivono sull’Himalaya o in altri Paesi limitrofi, come il Bhutan. “Ci consultano per esempio per fratture complesse. Funziona benissimo e i costi sono contenuti”. Ovviamente i medici locali devono venire formati. “Abbiamo una società di telemedicina che provvede alle tecnologie. Prima del Covid vedevamo 300 pazienti al giorno, ora 3mila”. La pandemia ha accelerato la telemedicina in un Paese molto tecnologico ed estremamente povero. Un altro esempio è la maternità. “Molte donne sono malnutrite, di conseguenza la mortalità pre e post natale è molto elevata. Monitorando madre e bambino da remoto, possiamo ora intervenire in caso di infezioni banali (prima non diagnosticate) e trattarle adeguatamente in loco o in un centro specializzato”.
Scopriamo poi che la salute pubblica passa anche da banali toilette, assenti nella maggior parte dei villaggi rurali, dove si defeca all’aperto, favorendo il diffondersi di malattie evitabili, causando costi sanitari e problemi sociali (chi è ammalato non lavora). Un circolo vizioso che viene evitato vivendo in un luogo pulito. “Diversi volontari si recano nei villaggi, dove insegnano a costruire toilette, a mantenerle pulite. Un sapere che si tramanda di generazione in generazione”. Vengono coinvolte e formate soprattutto le donne, la loro emancipazione è fondamentale per il benessere collettivo, visto che molti uomini sono disoccupati e bevono. Meno di una donna su tre ha un lavoro.
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Oceano di compassione
In un contesto così difficile, serve davvero molta determinazione. Prima di congedarci, chiediamo al medico da dove attinga tanta forza: “In presenza del guru è più facile. Amma è una persona unica, rappresenta l’amore universale, un oceano di compassione per ogni singolo essere umano, che fluisce in tanti programmi umanitari per mitigare la sofferenza. Chi sta morendo di fame non può progredire spiritualmente”. La compassione di Amma ha cambiato questo medico, questo uomo di scienza. Spiritualità, tecnologia e scienza in questo Paese camminano insieme. Accanto alla sala mensa, Shruti Saxana ci mostra un salone, luminoso, dove ogni sabato ci sono i bajan: preghiere cantate, le cui note allegre arrivano fino alle camere dei pazienti, creando un ambiente favorevole per una veloce guarigione. Un luogo di cura per il corpo che non tralascia la mente. “È risaputo che la preghiera crea buone vibrazioni, un ambiente più familiare e positivo per chi viene a curarsi”, ci confida la giovane. Anche yoga e meditazione aiutano a stare in salute, la mente impara a stare fissa, non perdere energia in ansia e depressione. Intanto gli attuali 800 pazienti quotidiani, diventeranno a breve migliaia, soprattutto se sarà introdotto l’atteso sistema di copertura assicurativa sanitaria nazionale. Mentre ci rigettiamo nel vivace caos indiano, lasciandoci alle spalle questa sofisticata e compassionevole realtà sanitaria, ci chiediamo che ne sarà tra 10, 20, 30 anni della filosofia che l’ha plasmata. Chi verrà dopo, saprà mantenere saldi gli stessi principi etici, anteponendo con saggezza i personali guadagni alla costruzione del bene collettivo? Il dubbio aleggia, solo il futuro darà una risposta.
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La sala delle preghiere dentro il nosocomio.
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AMMA: l’abbraccio si trasforma così in mattoni di solidarietà
Mata Amritanandamayi, nota come Amma, è una signora indiana – cresciuta in una famiglia di poveri pescatori, in un Paese dove le donne contano poco – che negli ultimi 30 anni ha abbracciato oltre 39 milioni di persone in Europa, Asia e America di ogni religione, nazionalità e classe sociale. Lo fa per liberare dall’egoismo, per seminare la compassione e costruire insieme un mondo più equo. C’è chi vede in lei una madre, chi un leader umanitario, chi la sceglie come proprio guru. Apre le braccia all’altro, allargandosi a tutto il pianeta con le attività sociali che dirige. Una rete mondiale di progetti umanitari – dalla costruzione di case, ospedali, scuole (la sua università è stata riconosciuta come la migliore in India tra quelle private) fino a progetti ambientali – che mostrano che l’impossibile è possibile. Il motore è questa donna, lei dà l’esempio, ispirando chi offre gratuitamente tempo e capacità per aiutare i più svantaggiati. “Amma ha fatto molto più di tanti governi, il suo contributo è enorme” ha detto il premio Nobel per la Pace (2006), il prof. Muhammad Yunus, fondatore della banca Grameen. I numeri di Embracing the World (embracingtheworld.org), un movimento con sede nel Kerala, fatto da volontari al servizio dei poveri – che dal 2005 gode dello status Consultivo dell’Onu per l’ampiezza degli aiuti, oltre 75 milioni a zone colpite da calamità – parlano da soli: costruite più di 47mila case per senzatetto, distribuiti 10 milioni di pasti l’anno e 50mila borse di studio, cure gratuite per oltre 4 milioni di persone, aiutate 200mila donne a trovare un lavoro. Solo per citare alcune attività umanitarie. Non meno importante l’ambiente (un milione di alberi piantati, 15 milioni per la pulizia del Gange) e la ricerca all’Amrita University in India su dispositivi wireless per rilevare frane, tecnologie mobili per la salute nei villaggi rurali.
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L’università di medicina.