Mario di Donato, da Teramo a Bellinzona

La storia di un emigrante arrivato con la classica valigia di cartone, e diventato ‘tassinaro’ sotto ai castelli

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

È un figlio della guerra, Mario di Donato. «Mi ricordo il rumore degli aerei, gli animali nascosti nei boschi. Il tedesco che ha puntato il fucile a mia zia per prendersi un’anatra». La vita nelle campagne attorno a Teramo, durante e dopo le bombe, è pura sussistenza: «Mia madre lavorava in campagna per mantenere me e i miei fratelli, con mia sorella andavamo a vendere le verdure in piazza. Mio padre andò in Belgio a fare il minatore, finché non si ammalò di pleurite».

Imparare il dialetto (per lavorare)

Dopo la quarta elementare è già l’ora di trovarsi un lavoro. Prima in campagna, poi come trattorista: «Il primo era un Vender da 84 cavalli, faceva fuoco dallo scappamento, da tanto che il terreno era duro» sui latifondi dei signori.
Meglio emigrare, anche se il padre non vorrebbe. Meglio farsi preparare dalla mamma la proverbiale valigia «di cartone, con le mutande lunghe e le calze di lana. Mi diceva: stai attento a non prendere freddo». Sbarcare a Magadino nel 1957, imparare il dialetto per capire cosa ti stanno ordinando, lavorare i campi nella stagione estiva. «Pomodori, cornetti, tabacco. Aravamo col cavallo. Ci svegliavamo alle tre e mezza per mungere, alle cinque passava il lattaio. Mi hanno accolto come in famiglia. La signora chiudeva a chiave la dispensa fuori dai pasti, ma lo faceva per abitudine, non era una discriminazione…».

Su, in valle…

Da lì in poi Mario fa avanti e indietro con l’Italia. A un certo punto finisce pure in galleria, nelle montagne sopra l’aeroporto di Ambrì: «Scavavamo i pozzi per metterci la benzina, collegati col tubo fino all’aeroporto. Così anche in caso di guerra si poteva fare rifornimento». Poi un passaggio a infornare bulloni per le traversine ferroviarie. Infine di nuovo dietro a un volante, stavolta di un camion. «Avevo imparato in Italia, caricavo legna. Vivevo insieme alla famiglia del padrone, dormivamo nello stesso letto io lui e la moglie». A ripensarci gli viene da ridere: «Lo vedi com’è bello, a raccontare certe cose?».

Italiani? No grazie

Trova un posto a Monte Carasso, a trasportare ghiaia e sabbia, e la vita comincia a sistemarsi un po’. Riesce anche a farsi qualche ballo alla Casa del Popolo, conosce una ragazza del posto. «Guadagnava già 2’500 franchi. L’ho portata anche al cinema, ma niente di grave». Non è finita benissimo, però: «Quando sono andato a trovare il padre, mi ha detto: ‘Mi la me tusa an tagliàn ga la do mia’. C’avrei voluto dire che non sono mica tutti uguali, gli italiani». Poco male, comunque, perché giù al paese conosce Maria. «Ci siamo sposati dopo ventun giorni di fidanzamento», nel 1963. E 55 anni dopo stanno ancora insieme, hanno avuto quattro figli («ma uno è morto a nove mesi»).
Il viaggio di nozze passa da San Benedetto del Tronto, una settimana a Cesena – «ci ho comprato la radio» –, un giorno a Bologna. Poi si rientra «sulla Dolfina (una piccola Renault Dauphine, ndr): quattro volte abbiamo bucato». E, come farà anche col fratello, se la sposa e porta in Ticino. «Avevo arredato l’appartamento coi mobili d’occasione, avevamo la stufa a legna e il gabinetto di fuori». Dalla ghiaia alle persone Mario ci arriva nel 1973. Porta in giro gli autobus turistici da Bellinzona «a Zurigo, Pisa, Firenze… Una volta siamo stati a Varese a vedere la bomba atomica» (In realtà intende il centro di ricerca sull’energia nucleare di Ispra, ndr). Era bellissimo, ma la vecchia di soldi non ne voleva tirare fuori, era stitica di pagare gli operai».

Il ’tassinaro‘

Da lì Mario passa ai taxi. «Mi hanno ingolosito i guadagni», nonostante il lavoro «dalle undici di mattina alle cinque del giorno dopo». Anche se «a volte portavi qualcuno nei night a bersi bottiglie da mille franchi, e poi non avevano più i soldi per pagarti la corsa». Non tutti i clienti, poi, sono tipi raccomandabili. «Una volta ho portato un signore a Luino. Io me lo sentivo che era un delinquente. Invece di pagare mi ha puntato la pistola. Penso ‘adesso cosa faccio, sono un padre di famiglia, c’ho anche la macchina nuova’. L’ho scoperto dopo, che era un rapinatore». Adesso ci ride: «Vedi quante ne ho passate io?».
«Ho messo su una ditta con cinque macchine, la famiglia mi ha aiutato. Mia moglie prendeva i telefoni intanto che dormiva». Una serie di gravi acciacchi lo ha poi costretto a vendere, ma gli resta l’orgoglio per quella vita masticata fino in fondo. «Ora faccio l’orto, ogni tanto una partita a carte con gli amici. Faccio la grappa con l’uva del giardino; te ne porto una bottiglia. Però a volte mi annoio». Gli chiedo quale sia il lusso più grande che si è concesso. «Essere ancora qui».

 
IL PERSONAGGIO

Mario di Donato è nato a Teramo (Abruzzo) il 18 marzo 1939. È emigrato in Ticino a 17 anni lavorando come agricoltore, aiuto minatore, operaio, camionista, autista di bus. A fine anni Settanta è diventato tassista e ha creato la Maxi-Taxi a Bellinzona. È sposato con Maria e ha tre figli, due maschi e una femmina.

Articoli simili