Pensiero magico. La vita e la potenza dei simboli

“Ci sono buoni motivi per pensare che, nell’evoluzione del pensiero, la religione sia successiva alla magia” (J.G. Frazer)

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Se c’è un luogo al mondo intriso di magia, o meglio di pensiero magico, quel luogo è la città di Napoli. Qui l’esoterismo forma un sostrato denso e “numinoso” che permea ogni cosa: i gesti e le parole di chi ci vive così come le facciate dei palazzi magnificamente decadenti del quartiere Sanità; la dimensione quasi “teatrale” che vi si respira e le sue opere d’arte. A partire, naturalmente, dalla Cappella Sansevero, ideata dal genio di Raimondo di Sangro (1710-1771) – uno che di esoterismo se ne intendeva – e che appunto ospita al suo interno lo stupefacente Cristo velato: un capolavoro che ancora oggi qualcuno ritiene essere il prodotto di un’opera alchemica, piuttosto che del mirabile talento dello scultore Giuseppe Sanmartino (1753). Dai vertici dell’espressione artistica, il pensiero magico rimbalza in strada per adescare il turista sotto forma di talismano (cornicelli, monacelli, pigne e portafortuna vari), di pratica divinatoria (lettura delle carte, della mano, dei fondi di caffè, dell’olio) o di rito propiziatorio (l’adozione del teschio al cimitero delle Fontanelle) ed è difficile resistere alla sua seduzione. Perché il pensiero magico è prima di tutto un linguaggio simbolico, e c’è una parte della nostra mente, anch’essa organizzata su base simbolica, che quell’idioma lo capisce e lo parla, per quanto razionale, logica e “snob” sia diventata nel frattempo.


Particolare del “Cristo velato”, opera ricca di simboli.

Eventi e nessi causali

In ambito psicologico, il “pensiero magico” è definito come la tendenza ad attribuire nessi causali a classi di eventi non relazionati fra loro, quanto meno non secondo quanto attualmente si conosce delle leggi naturali (fisiche, chimiche, economiche, biologiche ecc.). Nel suo trattato seminale sulla magia e la religione – Il ramo d’oro, 1915 – l’antropologo James Frazer distingue due principali categorie di pensiero magico: la regola del “contagio” e quella della “similarità”. La prima prevede che alcuni oggetti, gesti e parole possano sortire degli effetti per semplice contiguità (per es. se butto una monetina nella fontana di Trevi dandole le spalle tornerò a Roma); in base alla seconda, entità diverse che si somigliano sul piano formale hanno fra loro rapporti causali (per esempio, poiché la noce ha una forma simile a quella del cervello, mangiare noci aumenta il QI di una persona). Frazer ipotizza che questo peculiare modo d’interpretare la realtà fosse tipico delle civiltà ancestrali, pre-scientifiche, in quanto caratterizzate da una limitata capacità di agire sull’ambiente circostante. Il pensiero magico è precipuo, oltre che delle società antiche, anche del modo in cui i bambini leggono la realtà, forse perché, come si dice spesso, l’ontogenesi sembra ripercorrere la filogenesi. “Il bambino piccolo […] vive il mondo interiore e quello esterno come non sufficientemente distinti e quindi come appartenenti a una sola realtà. Non differenziando Io e mondo esterno, il bambino tende a credere che tra le cose, e tra lui e le cose, sia possibile tutta una serie di relazioni di natura indifferenziata (che dal punto di vista adulto possono essere definite come prelogiche, irrazionali, precausali eccetera) […]; così egli può pensare che alcuni sogni vengono per punire il bambino disobbediente, che l’erba cresce perché altrimenti le mucche morirebbero di fame, che il vento soffia per fare muovere le nuvole eccetera (R. Vianello, Elementi di psicologia generale e dell’età evolutiva, 1989). Fra le determinanti psicologiche del pensiero magico vi sarebbe dunque un’imperfetta comprensione del funzionamento delle leggi naturali e, più in particolare, una percezione non del tutto definita dei confini del proprio sé, che risulta alternativamente troppo pervasivo (“posso agire su persone, oggetti o fenomeni che si trovano al di fuori della mia portata”) oppure troppo permeabile (“mi sento agito da persone, oggetti o fenomeni che in realtà non possono esercitare alcun controllo su di me”).


Particolare del “Cristo velato”.

Mistero e psicologia

Descritto in questi termini, il pensiero magico sembrerebbe unicamente il retaggio di uno stadio di sviluppo (storico o psicologico) ancora primitivo, destinato come tale a evolvere fino a scomparire una volta raggiunta la piena maturità (della società o dell’individuo; vedi J. Piaget, 1929-83). Tuttavia la nozione di progresso lineare non s’attaglia, com’è noto, alle faccende umane, che di preferenza tendono a costituirsi come complesse, multistratificate, intrinsecamente contraddittorie e complicate. Il che, d’altra parte, è ciò che ci rende così maledettamente interessanti. Il pensiero magico permane dunque anche in età adulta, sebbene in misura variabile nei singoli individui e con implicazioni che spaziano dal patologico al “normale”. Così, per esempio, in diverse forme di psicosi (uno spettro di disturbi che tende ad alterare la percezione della realtà) le persone attribuiscono (o si attribuiscono) poteri inusuali, che sottendono un pensiero di tipo magico; nel disturbo ossessivo-compulsivo, invece, è la dimensione rituale a divenire rilevante: contare, allineare gli oggetti in maniera simmetrica, compiere azioni in progressione e a rovescio sono coazioni che, sul piano simbolico, hanno come fine il controllo di certi eventi. Ma il pensiero magico può condizionarci anche in modi meno eclatanti, e forse per questo più insidiosi: una persona eccessivamente fatalista, per esempio, così come una superstiziosa, tenderanno senza accorgersene a delegare la buona riuscita di un progetto, professionale o esistenziale, a forze che si situano al di fuori della loro volontà (il destino, il fato, gli dei, la sfortuna ecc.) inficiando almeno in parte l’impegno profuso per conseguirlo.


Mano votiva del III secolo (Valle della Beqaa, Libano)

Manie e scaramanzie

Di conseguenza, è stato teorizzato che questo tipo di pensiero rappresenti una forma di adattamento non del tutto funzionale a quelle situazioni in cui gli individui sentono di non potere esercitare un controllo “sufficiente” su di sé o sull’ambiente, il che darebbe conto della sua maggiore incidenza presso i bambini, le donne, le persone con uno status socio-economico medio-basso e gli individui socialmente svantaggiati. Al contempo, però, altre ricerche evidenziano che una cultura di tipo universitario non esclude affatto il ricorso a spiegazioni di tipo “paranormale” (Lindeman et al. “Core knowledge confusions among university students”, Science & Education, 2011), soprattutto laddove tali spiegazioni riguardino questioni personali ed emotivamente coinvolgenti (E. Subbotsky, “The Belief in Magic in the Age of Science”, SAGE Open, 2014). A prescindere dal livello di scolarizzazione, anche la persona più razionale fra noi conserva, magari vergognandosene, qualche idiosincrasia: che siano i gatti neri, o quella pietruzza che ci è stata regalata, o quel particolare indumento che preferiamo indossare in occasione di un esame, abbiamo tutti le nostre piccole, inconfessabili “manie”. Ma non sarà riduttivo definirle così? “Solo la specie umana […] ha l’abitudine di raccogliere, produrre, ammassare o distruggere (a seconda dei casi) oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare: offerte agli dei o ai morti, suppellettili funerarie sepolte nelle tombe, reliquie, opere d’arte o curiosità naturali conservate in musei e collezioni. A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato […] hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile” (C. Ginzburg, Storia notturna, 2017). Se il creare, connettere e comprendere i simboli è una competenza specificamente umana, non deve sorprendere che a un loro utilizzo “razionale” (per esempio, risolvere un’operazione aritmetica o leggere correttamente i segnali stradali) se ne affianchi uno più istintivo, archetipico e in buona parte inconscio (per esempio, appiccare un falò a Capodanno per “bruciare” l’anno appena trascorso e dare spazio a quello nuovo).

Applicare gli ‘atti magici’

Poiché la parte più antica della nostra mente reagisce agli archetipi e li comprende, può talvolta essere utile adoperare strategicamente questa sua proprietà, mantenendo la consapevolezza che si tratta di meccanismi psicologici del tutto “naturali”. È il paradigma della “psicomagia” elaborata da Alejandro Jodorowsky, secondo il quale la realizzazione di quello che egli definisce un “atto effimero”, ovvero un gesto simbolico, può determinare in un soggetto un impatto emotivo tale da innescare un processo di cambiamento psicologico. Gli “atti magici” prescritti da Jodorowsky sono invariabilmente belli e artistici ma forse anche noi, nella nostra quotidianità, possiamo “fabbricarcene” alcuni che ci aiutino ad affrontare in maniera più creativa la giornata. Abbiamo una mente simbolica: mettiamola dunque a frutto (notare la metafora ad alto coefficiente allegorico…).
Per chi volesse accostarsi all’eclettico Jodorowsky – regista, scrittore, terapeuta (e molte altre cose) – suggeriremmo d’iniziare con: Psicomagia. Una terapia panica (Feltrinelli, 2013); oppure, a proposito di archetipi:
La via dei tarocchi (Feltrinelli, 2014)

BENEDIZIONI CHE VENGONO DA LONTANO: LE MANI VOTIVE

A proposito del “sostrato magico” di Napoli, è significativo il ritrovamento presso gli scavi di Pompei ed Ercolano di una serie di oggetti misteriosi e affascinanti noti come “mano votiva”, o “mano pantea” oppure anche “mano di Sabazio”, dal nome del culto cui presumibilmente facevano riferimento. Si tratta di piccoli bronzi di squisita fattura – otto, per la precisione – che raffigurano una mano con pollice, indice e medio alzati, mentre l’anulare e il mignolo sono ripiegati in un gesto che ricorda molto da vicino la mano benedicente della tradizione cristiana (e che quindi sarebbe anteriore a essa). Queste mani votive sono decorate di simboli fra i quali si distinguono (rif. mano pantea di Sabazio rinvenuta a Pompei): un omino con un copricapo frigio, variamente identificato con Hermes-Mercurio oppure con il dio (frigio, appunto) Sabazio; una pigna, simbolo di forza e di rinascita; un uovo, che evoca la fertilità; un serpente, che ha a sua volta a che fare con la rinascita, ma anche con l’eros; una bilancia, che richiama il mito egizio della “pesatura” delle anime; una tartaruga, una rana, un coccodrillo e un ariete, tributo alla Madre Terra; un caduceo, che indica la medicina e la guarigione. Nell’incavo del polso, come protetti in una nicchia, la figurina di una donna che allatta un bambino con un ibis poggiato sull’anca. È quest’ultimo particolare a fare propendere gli storici per l’interpretazione votiva delle mani pantee: “La mortalità durante il parto, sia per la madre che per il nascituro, in epoca romana, raggiungeva percentuali elevatissime. Ogni donna che si avvicinava al momento del parto entrava quasi automaticamente in un periodo di grande trepidazione, in cui la paura occupava il primo posto. Rivolgersi a un dio benevolo e potente poteva essere il medicamento giusto e forse la strategia vincente. Volgere a lui lo sguardo per lenire le ansie dell’attesa era forse l’unica soluzione ragionevole” (Aniello Langella, La mano pantea, 2011 – vesuvioweb.com).

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