Le ‘cattive ragazze’ vanno (anche) in bicicletta
Brevi note dal primo Campionato afghano femminile di Aigle, Canton Vaud. Perché le cose più importanti non sono solo le parole della vincitrice
Di Roberto Antonini
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
In questa occasione la celebre frase attribuita a Pierre de Coubertin, fondatore dei Giochi olimpici moderni, assume tutto il suo profondo significato. Se la cronaca sportiva segnala il nome della vincitrice (Fariba Hashimi), la Storia ricorderà soprattutto la partecipazione di 49 rifugiate al primo Campionato afghano di ciclismo femminile.
Dall’Hindu Kush alle Alpi
Una dozzina di cicliste ben preparate e allenate, ma anche diverse inesperte e alle prime armi che inforcano una bici da corsa da poco tempo, hanno percorso lo scorso 23 ottobre per due volte un circuito di 28,5 chilometri, sfiorando le rive del Lemano dalla cittadina sede dell’Unione Ciclistica Internazionale (UCI) attraverso Yvorne, Rennaz, Vouvry. David Lappartient, il presidente dell’Uci a cui va buona parte del merito di questa iniziativa non esita a riconoscere che “il livello non è da olimpiade” ma che il significato dell’evento è tutt’altro, “la bicicletta è uno strumento di emancipazione per le donne, già prima della caduta di Kabul il ciclismo femminile in Afghanistan era mal visto, ora con i talebani è stato semplicemente messo al bando”.
© R. Antonini
Operazione salvataggio ad alto rischio
Wahida, Sahar, Zahra, Fariba e tante altre, unite nella passione per il ciclismo e pure nella nostalgia per i loro cari lasciati nel loro Paese governato dai talebani da poco più di un anno. Certo, sono cresciute in un mondo in costante guerra latente, ma hanno comunque beneficiato del ventennio “occidentale” in cui le donne hanno conosciuto, soprattutto nelle zone urbane, una progressiva emancipazione. Colpisce la loro determinazione, la loro consapevolezza delle ingiustizie profonde nelle quali è stata ingabbiata la loro condizione di donna. Un paio ancora non osano togliersi definitivamente il velo, le altre raccolgono i capelli sotto il casco prima di esibire con malcelata fierezza e affabile vanità, non appena se lo tolgono, le loro fluenti chiome. Le tute sportive aderenti non sembrano più porre alcun problema, il burqa è già un lontano ricordo, c’è chi verifica il proprio look in uno specchio appoggiato alla ringhiera del velodromo d’allenamento, chi si pettina a lungo pubblicamente di fronte a compagne, allenatori, giornalisti. Quasi tutte esfiltrate dal loro paese nell’estate dello scorso anno quando il fiume rovinoso degli eventi aveva travolto l’Afghanistan creando un’ondata di panico, con la calca, gli attentati e i tanti morti all’aeroporto di Kabul immortalati dalle telecamere. A organizzare la fuga, rocambolesca quanto insidiosa, delle cicliste e di diversi familiari – in tutto 124 persone – il presidente dell’Uci e l’allora Consigliere di Stato vodese Philippe Leuba che ancora oggi, quando ci racconta di quei momenti, ha la voce rotta dall’emozione. “David Lappartient mi ha chiamato quando Kabul stava cadendo. Mi ha chiesto il sostegno del Canton Vaud. Non ho esitato. Siamo sede di 60 federazioni sportive. Non potevamo lasciar cadere quelle ragazze”. La vivida memoria per quegli eventi è imbottita di commozione, di colpi di scena, di speranze e disillusioni, di momenti tragici “come quando abbiamo organizzato un volo, senza controllori aerei, senza assicurazione, senza personale di terra, dall’aeroporto di Mazar-i-Sharif nel nord dell’Afghanistan fino alla capitale del Tagikistan Dushanbe. Il rischio era enorme. In un attimo abbiamo deciso di correrlo”. Leuba non si risparmia nessun dettaglio, le telefonate ai consiglieri federali Cassis, Parmelin e Keller-Sutter, i problemi alle frontiere per far transitare persone senza passaporto, gli ostacoli enormi riscontrati a Tirana che lo hanno indotto a recarsi di persona in Albania per ottenere, in mancanza di visti, almeno un lasciapassare. Infine l’arrivo all’aeroporto di Ginevra, l’abbraccio collettivo ammantato di “un’emozione mai vista”. Per non separare le ragazze, la Confederazione aveva derogato alla regola che vuole una distribuzione equa dei rifugiati nei diversi cantoni: tutte le cicliste giunte in Svizzera risiedono nel canton Vaud. Al contingente elvetico (24) bisogna aggiungere quello francese, statunitense e soprattutto canadese (60 tra cicliste e qualche familiare).
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49 storie, tutte diverse, tutte simili
Una manciata delle 49 atlete che hanno gareggiato a Aigle è stata accolta in Italia e subito integrata in una forte squadra ciclistica. Fuggite dapprima in Pakistan e arrivate in Italia via Kuwait, le sorelle Fariba e Yulduz Hashimi indossano con un certo orgoglio la maglietta della Valcar, team che conta diverse professioniste. Il fisico asciutto e slanciato, le due di etnia uzbeka figurano certamente tra le più allenate e determinate. Non a caso hanno tagliato il traguardo prima e seconda. Entrambe possono contare sul sostegno dell’ex campionessa mondiale Alessandra Cappellotto, nei confronti della quale nutrono una stima smisurata. Giovani donne fortunate, se pensiamo a quelle rimaste in condizioni di semi schiavitù nel loro paese. Eppure, parlando con loro, in sottotraccia emerge sempre una profonda tristezza. “Mi mancano tutti i miei famigliari e amici di Fariab (città settentrionale, ndr) , di mio padre non sappiamo più nulla da tempo, è stato sequestrato e scomparso nel nulla”, ci confida Fariba. Come altre non ha perso tempo, il suo italiano le consente già di comunicare a un buon livello. Fra poco comincerà a lavorare come apprendista in un bar a Schio, nei pressi di Vicenza, “anche se molti musulmani considerano che sia contro l’Islam”. Sveglie, assetate di sapere, impazienti di vivere una vita piena, con un paese e una storia che le hanno proiettate da piccole nel mondo disincantato e rude degli adulti, hanno voglia di riscatto. Wahida, 22anni, è una delle 14 atlete della “squadra svizzera”. I suoi tratti somatici velatamente mongoli ci fanno capire subito che è di etnia hazara, quella di confessione sciita presa di mira con particolare crudeltà e costanza dai talebani e dall’Isis. Vive a Villeneuve, non lontano da Aigle. Impressi tra i tanti ricordi, i tre giorni di angoscia, superando i diversi posti di blocco, per giungere via terra a Mazar-i-Sharif e salire poi a bordo del volo della libertà. Le lacrime le solcano il volto quando le chiediamo della famiglia. Due interminabili minuti di silenzio, prima di riprendere fiato e coraggio per raccontarci che è stata sua madre a convincerla a partire da Ghazni, la sua città “perché qui in Afghanistan non c’è più speranza per le donne”. “Nel 2016 ho potuto comperare una bici, una scelta difficile, mi facevo insultare in strada. Ma mio fratello e mio padre mi hanno sostenuta. Ho partecipato a qualche corsa, non eravamo più di dodici cicliste”. L’accoglienza in Svizzera è stata ottima sottolinea con gratitudine. Nel suo futuro immediato intravede studi di informatica “non appena migliorerà la conoscenza del francese”, lingua che peraltro già le permette di rispondere senza esitazioni e con chiarezza alle nostre domande.
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Donne, molto coraggiose, in bicicletta
Wahida, contrariamente alle altre cicliste con cui abbiamo parlato, non sente più nessuno dei suoi famigliari da mesi. Nella città di Ghazny non c’è rete, “impossibile chiamarci via Whatsapp”. Hazara, lo è pure Fereshta Mehraeen. Fisico esile, fragile, la figura diafana, improbabile per una ciclista che mira a un gradino del podio. Non farà certamente di questo sport la sua professione, il suo sogno – visibilmente realizzabile stando all’impressione che ci lascia – è quello di studiare medicina. Non è ancora ventenne, parla un inglese impeccabile “imparato unicamente su YouTube”. Ha trascorso oltre sette mesi in un campo profughi degli Emirati Arabi Uniti, da tre mesi vive in Canada. Tutto bello a Calgary, ma anche lei si commuove parlando della famiglia. Il suo viaggio della speranza è stato tra i più angosciosi. Il volo della libertà ha potuto prenderlo solo da Dushanbe. Fino a lì, con 17 ragazze in fuga, è giunta via terra, in un’interminabile odissea da Kabul via Kunduz, nel nord, coperta da un burqa e con falsa identità. “In Afghanistan avevo una bici molto rudimentale, una di quelle con parafanghi e manubrio da passeggio. Me l’aveva comperata mio zio a Bamiyan, una città nelle montagne, che assomigliano un po’ a queste qui in Svizzera, dove vive una forte comunità hazara”. In un paese dove le donne stavano solo iniziando a emanciparsi, le ragazze in bicicletta (a Bamiyan 25 in tutto) erano considerate ‘bad girls’. “Ci facevamo regolarmente schernire e ingiuriare in strada”, poi comunque sono arrivati i talebani e lo sport declinato al femminile è stato semplicemente vietato. “Ero terrorizzata, ma a volte non mi sento sicura neanche qui, non so cosa possa succedermi, i talebani hanno preso di mira le donne e la mia etnia, non so fino a dove potranno arrivare”.
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Evento storico (e bellissimo)
Alexandra Greenfield, campionessa di ciclismo, è la direttrice del coaching al Centre Mondial du Cyclisme (CMC di Aigle, il palazzetto dello sport nel cui velodromo hanno potuto allenarsi e sfrecciare per giorni le atlete afghane. “È stato un vero e proprio challenge” , racconta con soddisfazione la professionista britannica. Da marzo ha potuto lavorare con una parte delle 49 concorrenti (alcune atlete sono potute arrivare solo all’ultimo momento). L’aspetto più singolare che evidenzia Greenfield è l’adesione delle afghane alle diverse culture di accoglienza: “Quelle arrivate in Italia si comportano già un po’ come fossero italiane, più allegre e disinvolte, le ‘svizzere’ sono più discrete e serie, le canadesi sembrano essere nate lì a Calgary”. “Far svolgere qui il campionato afgano femminile è stata un’esperienza irripetibile, emozionante”. Un piccolo grande evento “storico e… bellissimo”.
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