Disavventure Latine. Messico: tequila & fonduta
Dopo qualche mese di pausa, Roberto si è rimesso in viaggio. Siamo sempre in America Centrale, ma questa volta più a nord di Panama e la Colombia…
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Avevo comprato il biglietto aereo per il Messico nel febbraio di due anni fa. La partenza era fissata il 17 marzo 2020 da Genova. Sono atterrato all’alba del 6 aprile di quest’anno, una pandemia e quindici ore dopo essere decollato da Zurigo. Nel frattempo, insieme all’aeroporto di partenza, sono cambiati sia il luogo in cui vivo che il mondo. E, a suo modo, pure il Messico. Non so come fosse prima, ma ho un mese di tempo per illudermi di capire com’è ora.
Se parli di Milano a un romano, stai certo che prima o poi ti dirà che “la cosa più bella di Milano è il treno per Roma”. A Roma, quartiere alla moda di Città del Messico, penso farebbero la stessa battuta su Toluca se solo ci fosse un treno a collegarle. Ci sarà, prima o poi, dicono. Anzi, avrebbe già dovuto esserci nel 2017, nel 2018, nel 2020 e anche quest’anno. Sarà pronto l’anno prossimo. E l’anno prossimo tra due anni. E così via, in questa versione latinoamericana del paradosso di Achille e la tartaruga, che anche se arriva dall’Antica Grecia pare perfetto per descrivere il Messico moderno, un luogo in cui la velocità non è una virtù, ma solo un modo per arrivare con il fiatone un passo indietro a chi se l’è presa comoda.
A Toluca sono andato in autobus. Avevo letto che lì non c’è niente da vedere e mi piaceva l’idea di entrare in Messico dalla porta sul retro, di guadagnarmelo senza prendere le scorciatoie che ti portano dritto alle spiagge bianche di Cancún o in cima alle piramidi. Quando salgo sul bus, la prima cosa che vedo è un grosso cartello: spiega, con tanto di fotografie inequivocabili, che a bordo non si possono usare phon o arricciacapelli. Evidentemente, qualcuno, in passato, è salito pensando che fosse una buona idea maneggiare piastre roventi su un mezzo di trasporto affollato che percorre strade piene di buche e curve. Sono pericolosi ’sti messicani, ma mi stanno già simpatici.
Che ci faccio qui?
Quando, alla fine del viaggio, il bus mi lascia in una specie di superstrada a chilometri dal centro mi stanno già meno simpatici, e io mi sento un po’ come quei cani abbandonati in autostrada: un cane con un cellulare e l’app di Uber per farmi venire a prendere, quindi tutto sommato un cane parecchio fortunato. Finalmente arrivo in hotel, mollo la valigia e inizio a vagare per le strade: la cosa che mi rimane più impressa del centro cittadino è come non ci sia nulla, ma proprio nulla, che possa rimanerti impresso. Scatto, senza convinzione, qualche foto a casaccio tanto per dire che sono stato a Toluca: un gruppo di poliziotti mi avvicina e mi chiede cosa fotografo, cosa ci faccio lì. L’idea che sia un turista, per di più europeo, proprio non li convince.
Ma un motivo per andare a Toluca esiste, eccome, e si chiama Vaquita negra del Portal, una specie di rosticceria anonima con un lungo bancone che al primo sguardo si distingue da tutte le altre per una cosa: la coda. Lì per lì la folla mi fa venire voglia di desistere, poi mi ricordo che non ho molto altro da fare (l’altra vera attrazione, il Cosmovitral, è una specie di deludente giardino botanico attorniato da vetrate colorate, che si gira tutto in una decina di minuti sudando come in una sauna) e allora aspetto, guardo il menù: li chiamano torte, ma sono panini, tra i più buoni che abbia mai mangiato in vita mia. E anche semplici: salsiccia sbriciolata (rossa o verde, se vuoi l’originale toluqueña), formaggio, una salsa piccante verdognola e pomodori. Capisco che un panino è troppo poco quando ormai la coda dietro di me si è riformata. Ma è talmente squisito che mi riprometto di tornare la sera.
Il paese della Garapiña
Nel frattempo scopro un negozio della Panini, con tanto di storico logo del paladino lancia in resta in bella vista, e la Garapiña, la bevanda tipica locale fatta perlopiù di polpa d’ananas lasciata fermentare per alcuni giorni (per insaporirla aggiungono, tra le altre cose, la corteccia di cascara, un arbusto con proprietà lassative): è fresca, per non dire ghiacciata, e sembra leggermente alcolica anche se non lo è. Internet dice che gli abitanti di Toluca sono molto orgogliosi della loro bevanda, che in realtà arriva da Cuba. Sarà, ma in due giorni a Toluca non ho visto una sola persona bere Garapiña. Il cibo mi perseguiterà anche quando non voglio: sotto la finestra del mio hotel infatti sosta quasi regolarmente un’auto che spara a tutto volume il jingle reggaeton di una catena di pollo fritto e allo spiedo, “El pollo Pechugón“, che ormai ho imparato a memoria e credo sia – mio malgrado – anche la canzone che ho canticchiato di più da quel momento in poi. Fa così: “El Pechugón, el Pechugón, tan grande cómo su saboooor“.
Ehi, ma quello è…
La giornata passa, in qualche modo, e dopo un giro al mercato – dove scopro l’insana passione dei messicani per l’Uomo ragno, che si trova appeso dappertutto – torno alla Vaquita Negra del Portal. Questa volta non ordino un panino, ma tre. Mentre sono nel locale ad aspettare che venga chiamato il mio nome vedo oltre la vetrina, proprio davanti ai tavolini all’aperto, un ragazzo che balla e si dimena sotto i portici accanto a uno stereo portatile da cui escono tutte le hit
di Michael Jackson. Il ballerino – giacca bianca, gilet bianco, camicia e pantaloni neri – chiude ogni numero come se fosse a Las Vegas. Con il suo entusiasmo eccessivo, le espressioni caricaturali e il moonwalking in dribbling tra i passanti è francamente ridicolo, ma crede talmente tanto in sé stesso che non posso non ammirarlo. Tra me e me penso, chissà, con quell’entusiasmo magari sarei diventato primo ballerino del New York Times. Insomma, lo vedi che si diverte, che ballerebbe anche gratis: anzi, di fatto lo fa, perché campa (o almeno così sembra) delle offerte che i passanti gli lasciano. Non riesco a staccargli gli occhi e il telefonino di dosso, vivendo uno di quei cortocircuiti che solo il trash sa regalarti, dove non capisci più il confine tra alto e basso, tra quello che ti piace e quello che ti repelle. Il fatto che balli a un metro da un poliziotto che non se ne va, ma lo ignora, rende il tutto ancora più assurdo. Ora il problema è che sul mio cellulare ho più ore di girato di questo tizio che balla che Francis Ford Coppola di Apocalypse now.
VALLE DE BRAVO
Ho un’altra notte da passare a Toluca, ma se mi trovassi in giro per la città ancora una volta mi arresterei da solo. E così il giorno dopo prendo un altro autobus che va ancora più a ovest, a Valle de Bravo, uno dei tanti “Pueblos Magicos” del Messico, città e cittadine “magiche” che per qualche motivo possono esibire una specie di marchio Doc: Valle de Bravo lo merita. Alcuni la pubblicizzano come la Svizzera o come il Lago di Como del Messico, forse perché c’è un lago, tra l’altro artificiale. Ma trovare vere somiglianze è difficile: la luce, il calore e soprattutto i contrasti sono da subito talmente forti da farti allontanare da una qualsiasi idea di Europa. Porsche e Suv di ultima generazione sfrecciano accanto a Maggiolini stanchi, parcheggiano davanti a vecchie Ford la cui carrozzeria ha più ruggine che vernice. Il bar alla moda con le sedie di design è accanto a una panetteria dove a malapena c’è il pane, e per arrivare al golf club esclusivo devi passare per quei negozi senza insegna in cui non si capisce cosa vendono finché non entri, e a volte anche oltre: di solito, all’ingresso hanno sacchi di plastica enormi con dentro chili di patatine al gusto formaggio, ma puoi trovarci giocattoli, telefoni, piccoli animali, crocifissi. C’è anche, proprio accanto al lago, un palazzo con dentro un elicottero incastrato in una finestra.
La Svizzera (dove meno te l’aspetti)
L’angolo più magico del Pueblo magico è Plaza de la Independencia, dove il Messico ti viene letteralmente sbattuto in faccia, tra lustrascarpe che leggono il giornale, bambini con facce antiche che corrono e adulti che non ci pensano neanche, la cui preoccupazione principale è trovare una panchina all’ombra. Dalla piazza scendo in direzione imbarcadero, dove c’è poco da vedere a parte un paio di yacht-ristorante e alcune piccole, colorate, costosissime lance con cui i locali portano i turisti a spasso per il lago. Nella salita che mi riporta al centro noto una bandiera svizzera dipinta ad altezza marciapiede, poi un’altra, in alto, con la scritta Rincón Suizo (L’angolo svizzero): m’incuriosisco e metto la testa dentro. Una voce dall’interno si scusa, dicendomi che è il giorno di chiusura, che la porta è aperta solo perché stanno facendo le pulizie. Quando dico che volevo solo dare un’occhiata al locale perché vivo in Svizzera, arriva anche il corpo, dentro una maglietta bianca con il collo a V.
È di un signore sorridente sulla cinquantina che a Valle de Bravo è arrivato in uno di quei modi in cui ti porta la vita quando decidi che dove sei nato non c’è più niente da fare e tanto vale seguirla. Si chiama Jean Paul e nella vita precedente mungeva mucche a La Chaux-de-Fonds, a due passi dalla Francia. Appassionato di teatro andò a Parigi per un corso di recitazione e a un certo punto saltò fuori una tournée messicana. Gli altri sono tornati indietro, lui si è fermato qui, in questo posto che chiamano Svizzera senza apparenti motivi. Pare che il suo sia l’unico ristorante svizzero dello Stato, e non stento a credergli, visto che – negli anni – ho girato in lungo e in largo l’America Latina e non ne avevo mai visto uno. Il menù è esattamente quello che ti aspetteresti da un ristorante svizzero in un angolo di Messico difficile da raggiungere e lontano dai classici circuiti turistici: fonduta con Chipotle, trota affumicata, gamberoni o epazote, la pianta officinale al sapore di liquirizia usata già dai maya e dagli aztechi.
Gusti alpini
Anche i rösti si sono imbastarditi, incorporando ingredienti locali. Jean Paul dice che non potrebbe fare altrimenti, e che una cucina svizzera senza compromessi non attirerebbe abbastanza clientela. Sul formaggio, però, niente deroghe, quello se lo fa arrivare dalla madrepatria. Diverso il discorso per il vino, che ordina dall’Argentina. Me lo dice sottovoce, come se qualcuno, forse la Svizzera – che è comunque abbastanza lontana – non dovesse sentirci: “Sai, è più buono e mi costa pure molto meno”. Ogni tanto mette in tavola bottiglie di nocino e amari alpini, ma “su quello non li smuovi, vanno avanti a mezcal e tequila”. M’invita per pranzo il giorno dopo, e avrei davvero voglia di assaggiare una fonduta al chipotle su questa terrazza che dà su un ristorante greco che affaccia su un lago messicano che si autoproclama svizzero, ma davvero non c’è tempo, devo rientrare a Toluca per la notte. Da lì proseguirò per Puebla, dove a spiazzarmi non saranno più il cibo e le bandiere rossocrociate, ma l’alcol e una strana legge che già dal nome dovrebbe dirmi qualcosa: “Ley seca”.