Dimmi come ti chiamano (e ti dirò chi sei)
Ti si attacca addosso in un attimo e ti accompagna per tutta la vita, spesso finendo per diventare anche un nome di famiglia alternativo: è il soprannome
Di Marco Narzisi / Redazione/T7
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Al nome ci pensano i genitori. Con gli amici, i familiari, a scuola o in ufficio le cose spesso cambiano, le dinamiche personali pure… E sovente piovono i soprannomi. E non di rado diventano identità più forti ed evocative di quelle registrate all’anagrafe. Anche in una società dove tutto pare digitale, la fantasia del soprannome resiste e non smette di meravigliare, evocare, far sorridere ma anche inquietare.
Al Nord si va un po’ tutti di fretta, non si perde tempo, neanche nel pronunciare il nome delle persone. Chi ha un nome lungo ci ha ormai fatto il callo. Dire “Vale”, “Ale”, “Pier” anziché Valentina, Alessandro, Pierferdinando non è accorciare: è ottimizzare. Andando più a sud, invece, anche l’onomastica si dilata e prende strade alternative, quella delle ‘nciurie, che Leonardo Sciascia chiamava “questa specie di genere letterario”. La ‘nciuria non è un qualsiasi soprannome; è un elemento che ti definisce all’interno della comunità locale, ti si attacca addosso in un attimo e ti accompagna per tutta la vita, finendo anche per diventare un vero e proprio nome di famiglia alternativo. Già Giovanni Verga, durante la stesura del suo capolavoro I Malavoglia così scriveva al conterraneo Luigi Capuana nel 1878: “A proposito, mi hai trovato una ‘ngiuria che si adatti al mio titolo? Che ti sembra di ‘I Malavoglia’?”, per poi rivelare, proprio all’interno del romanzo, che in realtà la famiglia si chiamava Toscano e che il soprannome mal si adattava alla loro reale operosità.
Nell’ambiente criminale, spesso, la ‘nciuria ha anche la funzione di nascondere il nome vero alle orecchie delle forze dell’ordine. Ai mafiosi, per esempio, i soprannomi non mancano quasi mai: c’è il boss dei Casalesi Francesco Schiavone detto “Sandokan”, il capoclan di Catania Nitto Santapaola noto come “Il Licantropo”, Giovanni Brusca era “U verru” (il porco) o “Scannacristiani”. Ciò che Roberto Saviano definisce “un florilegio di contronomi”, e chi ha visto Gomorra è avvezzo ai vari ’O Track, Scianel, Sangue Blu e via dicendo.
La questione “fisica”
Senza scivolare in tragedie, in Sicilia l’arte delle ‘nciurie è alquanto evoluta, e al riguardo il mio paesello e i suoi dintorni forniscono un ampio quadro di questa bizzarra onomastica. Ci sono innanzitutto le ‘nciurie che si evolvono: Melo (Carmelo), muscoloso appassionato di body building noto da giovane come “Melo Sasso”, in età matura è diventato Melo Macigno. Poi ci sono, appunto, quelle di famiglia, anch’esse adeguate man mano di generazione in generazione: un caro compagno di liceo, nipote di Vanni, detto “Vannazzu” per la stazza notevole, era appunto noto come “‘U Vannazzeddu”, il piccolo Vannazzu. Da padre a figlio passò anche il soprannome di “Cadetto”, per la celebrata attività del primo come cantante nel gruppo musicale “I Cadetti”.
Immediate, chiaramente, le ‘nciurie riferite a dettagli o più spesso difetti fisici. Nella mia famiglia vanto un antenato che ha condiviso il soprannome con una stella del calcio, sia per ragioni diverse: nonno Domenico, noto come “Micu ’u pulici” (la pulce), non per la statura minuta come Leo Messi, ma più prosaicamente per un neo sul viso che sembrava, appunto, una pulce. C’era poi la bottegaia sotto casa di mia nonna che di nome faceva Grazia ed era “usata séntiri”, “Donna Razia ’a sudda”, non essendo particolarmente dotata d’udito. Nel paese accanto mi raccontano di tale “Caccalovu”, ovvero “schiaccia l’uovo”, perché pare che camminasse goffamente come se, appunto, schiacciasse uova.
Di indumenti e capacità amatorie
A volte poi si sfocia nella pura metafora, come nel caso di Melo “U Sarbaggeddu” (il piccolo selvaggio), per il carattere, si dice, focoso. C’è poi un’intera famiglia detta “I Maistritti”, i maestrini, da un antenato particolarmente saccente. Particolarmente fertile come fucina di ‘nciurie è la ridente frazione di Allume, il cui passato di primo nucleo storico del paese suscita nei suoi pochi abitanti, i “lumoti”, sentimenti d’orgoglio patrio che sfociano a tratti in tendenze autonomistiche se non secessioniste. Ad Allume a volte basta poco, una battuta di un momento perché un soprannome si appiccichi per tutta la vita: l’indossare una maglietta su cui erano disegnate tre lattine (“lanne” in dialetto) valse al quasi coetaneo Carmelo l’eterna ‘nciuria di “Melo Tri Lanni”. Il quale è in buona compagnia, fra Ciccio Panna (come la panna, per rimproverargli di essere un po’ ‘montato’), Ninu U Biondu, Peppe Mafia (necessaria ‘nciuria per distinguerlo da un omonimo cugino), Fabio U Cuccu (lo jettatore), Melo Fusione, e si arriva pure alla creazione di un titolo nobiliare, attribuito al signor Angelo che per oscure ragioni assurse a “Conte”, titolo che traslò poi nel nome del suo fortunato ristorante. Si apre poi una sezione decisamente scabrosa, quella delle ‘nciurie legate alla sfera intima, un fiorire di salaci allusioni a presunte capacità mirabolanti, clamorose defezioni o vicende amorose o coniugali: nel microcosmo paesano trovano quindi posto figure come “Padd’e tronu”, ovvero “testicoli di tuono”, “paddi ruggiati” (buonanima), ovvero i suddetti organi maschili ma arrugginiti.
Occhio ai pesci
Capita anche che ci si allarghi un po’, e che la ‘nciuria finisca per definire un’intera cittadinanza, un po’ come “sbroja” per i luganesi (per altri esempi si veda qui accanto, ndr). I messinesi, per esempio, sono universalmente noti come “buddaci”, e il motivo è curioso: “buddace” è il nome dialettale di un piccolo pesce, il Serranus Scriba, detto in italiano serrano, noto per abboccare facilmente all’esca e per essere, letteralmente, di bocca larga, ovvero due caratteristiche, la faciloneria e la vanagloria, storicamente attribuite al popolo messinese, noto appunto per la tendenza a parlare tanto e concludere poco. A loro volta i messinesi rispondono agli “odiati” dirimpettai di Reggio Calabria etichettando i reggini come “sciacquatrippa”, da una vecchia favola sul personaggio comico di Giufà.
Curioso destino, infine, quello dei “carrapipani”, ovvero gli abitanti del paesello di Valguarnera Caropepe, in dialetto Carrapipi, che sono col tempo diventati sinonimo di gente sgarbata e becera (un po’ accade al Nord con i “montanari” o “valligiani”). Tale fama finì per essere consacrata nella letteratura. A fissarla per sempre nell’immaginario collettivo è la commedia di Nino Martoglio – autore catanese dei primi del Novecento – L’aria del continente, con l’esclamazione inferocita del protagonista alla scoperta che l’emancipata (ed economicamente esigente) ballerina di cui si era invaghito a Milano tanto da portarla fino a Catania, nonostante le arie sofisticate da donna “del continente” non era nata a Rimini bensì, appunto, a Valguarnera Caropepe: “Carrapipana è!”.
IN TICINO: DAI MAIALI ALLA NEBBIA
(a cura di Giancarlo Fornasier)
Bellinzona. Incastrata al parabrezza di una Golf (ma all’interno) una targa nera che ricorda quella di circolazione applicata ai veicoli recita “Becco”; ai lati gli scudetti coi colori del Cantone Ticino e la croce svizzera. Chi sia “Becco” e perché si identifichi con quelle cinque lettere non si sa, ma per chi un po’ di cultura cantonalpopolare la mastica, riconosce il (quasi certo) soprannome del proprietario dell’auto. “Becco”, mmh… sarà la contrazione del suo cognome? Oppure “becco” come quello degli uccelli, forse perché il naso del nostro amico lo ricorda? O sarà legato alla sua famiglia che ha interessi nell’allevamento di capre e caproni (i becchi, in dialetto bòsc). O ancora perché la sua prima storica moglie lo tradì il giorno del matrimonio? Vallo a sapere; solo chi è del suo “giro” (amici, familiari, paesani, squadra di calcetto eccetera) potrebbe venirne a capo.
La questione del soprannome è affare più complesso e socialmente interessante di quanto potrebbe apparire, tanto che la Treccani nella sua definizione cita Dante (va da sé), Boccaccio, lingua latina, l’origine dei cognomi, le professioni, i difetti ma anche le qualità e le attitudini di una persona. Nell’aprile del 2021 la Radiotelevisiun Svizra Rumantscha (RTR) ha trasmesso un curioso e illuminante servizio della giornalista Petra Rothmund, che si è fatta un giro nella Surselva alla ricerca di nomi e nomignoli, e in generale dell’origine storica dei soprannomi grigionesi. L’esempio del signor Gion Aluis Candinas, per tutti Gioni Laif, e in seguito Laifi (“da Disentis a Trun”). All’origine un brano molto noto negli anni Ottanta degli Opus, “Live is Life”, che un Candinas adolescente amava e ascoltava così tanto da essersi fatto pure una cassetta con solo quel brano inciso. E che il suo walkman macinava tutto il giorno, ripetuta e ripetuta sempre e ovunque.
Dai Grigioni alla Leventina
Il documentario della RTR mette in evidenza come i soprannomi servivano, soprattutto in passato, a distinguere le famiglie tra loro; una soluzione indispensabile in quei villaggi dove i cognomi erano una manciata e gli abitanti centinaia. Ergo, esistevano persone con lo stesso nome e cognome, e il soprannome si faceva essenziale per capire di chi si stesse parlando. Naturalmente, l’interlocutore doveva conoscere sia la persona citata sia a chi faceva riferimento il soprannome, che di solito era da collegare al luogo, alla famiglia o al lavoro. Insomma, un’interessante e piuttosto complessa faccenda di relazioni e conoscenze.
Anche nel nostro cantone le cose funzionavano (ma ancora resistono) allo stesso modo; con le famiglie ma anche con chi proveniva da valli o paesi vicini. Lo si riporta nero su bianco nel “Blasone popolare ticinese” di Virgilio Gilardoni (in Arte e tradizioni popolari del Ticino, 1954) o consultando il Lessico dialettale della Svizzera italiana (LSI) redatto dal Centro di dialettologia e di etnografia. E così si scopre che i picapörsc (picchiaporci) è il soprannome dato dai bleniesi ai leventinesi. Molto interessante l’origine: in Val di Blenio picapörsc è persona da poco. Nel ‘Dizionario Leventinese’ – un portale dedicato al dialetto della valle ricco di spunti e riferimenti bibliografici; https://sites.google.com/site/leventinese, curato da Tabasio – si legge che “l’origine dell’epiteto sta probabilmente nel fatto che un tempo i contadini di Bodio e Pollegio solevano portare il loro bestiame – maiali compresi – in alpi dell’alta Valle di Blenio, che dovevano risalire a piedi fino all’introduzione dei trasporti motorizzati (…) Da ragazzo mi è capitato di far salire un maiale da Altanca fino all’Alpe di Piora sotto il sole di luglio e non faccio fatica a immaginare quanto avranno potuto osservare i buoni bleniesi al passaggio dei poveri leventinesi. I maiali sono notoriamente difficili da far procedere quando s’impuntano a fermarsi e a poco serve anche accanirsi con il bastone!”. I parüsc (grossi chiodi o cavicchi di legno utilizzati un tempo nella costruzione) è invece “il soprannome dato ai bedrettesi dagli airolesi. Secondo Gilardoni applicato anche al villaggio di Bedretto. A volte si sente dire scherzosamente büdrasca (‘l’è un büdrasca’ ovvero è un bedrettese)”. Interessante quanto avveniva con gli abitanti di Ambrì Sotto detti i tèra santa (i terra santa): “Ambrì Sotto era ritenuta una frazione – tèra, terra in dialetto – di gente molto ‘da gésa’ (ovvero di chiesa, devota) e conservatrice, in opposizione ad Ambrì Sopra, dove nell’800 ha invece attecchito il liberalismo e con esso l’anticlericalismo”.
Nord e sud (passando dal Carnevale)
Se quelli Biasca sono noti come i gòss (da gozzo, malattia della tiroide un tempo assai diffusa nel borgo, così come a Pollegio; per i nomi delle famiglie di Biasca rimandiamo al sito del Patriziato) e quelli di Personico salvèdi (selvatici) o bósc (becchi, caproni; il simbolo del Comune lo ricorda pure), gli abitanti di Faido sono conosciuti come i müi (muli) – “per la loro proverbiale cocciutaggine” secondo la spiegazione corrente, storicamente forse in rapporto con l’attività della someggiatura, praticata appunto con cavalli e muli, molto importante a Faido ancora fino all’Ottocento” –. Molto più a sud, in Capriasca, quelli di Tesserete sono i “fasörè, che è poi il bastone sul quale si avvolgono le pianticelle dei fagioli. Nel 1881 troviamo anche il nome patalòch che è il baco delle castagne ed è sinonimo di scansafatiche”, si legge in un documento nel sito capriasca.ch. Mentre quelli di Cagiallo sono i barín, “cioè i montoni (1881). Si allude forse all’allevamento delle pecore praticato in paese. Il barín si trova anche sullo stemma comunale”. Gli esempi sono numerosi e non di rado con ricadute su tradizioni popolari ed eventi collettivi molto radicati nel territorio, come i Carnevali (da Re Sbroja di Lugano a Re Nisciölin di Melano o Re Coruf di Airolo). Illuminante in questo senso quanto apparso lo scorso febbraio sulla Rivista di Lugano in un contributo dedicato proprio ai nomi dei Carnevali ticinesi. In quell’occasione Giovanna Ceccarelli – autrice della voce ‘carnevaa’ per il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana (VSI) – ricordava come i nomi “generalmente derivano dai soprannomi degli abitanti del paese in questione, che a loro volta spesso si ispirano ad animali (asan, bécch, cavri, gatt, orócch, porscéi), difetti fisici (gòss), oppure si basano su attività collegate al mangiare (maiabött, maiaratt, maiamundinn, tetaquacc), professioni o attività talora sanzionabili (pessatt, ranatt, sfrusín), difetti o qualità morali e/o sovrannaturali (matt, narigiatt, sbefard, striún), o ancora caratteristiche del luogo (pensiamo ai nebiatt di Chiasso o ai masarée di Aranno)”. E cosi il cerchio, tra la Sicilia, i Grigioni e il Cantone Ticino, si chiude. Perché ‘tutto il mondo è Paese’, si sa.
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Biasca, 1907: gli allievi della Scuola maggiore maschile.
ALLA SCUOLA MATERNA: MARTINA LUNA E GIACOMO PERA
“Lo chiamano ‘Luna’ dai tempi dell’asilo. Il suo nome vero a pensarci bene, non lo so. Credo sia un bellissimo soprannome ma penso anche a quanto sia stata fortunata a non aver subìto lo stesso trattamento. Io avevo il pino. Poi ci sono i bimbi omonimi: viene quindi aggiunto il contrassegno al nome: MartinaPera, MartinaCoccinella. Il problema nasce quando tuo figlio vuole invitare MartinaPera al suo compleanno e provi a cercare sugli elenchi la famiglia ‘Pera’, per scoprire che nel tuo comune, quel cognome, non esiste proprio”.
(Sabrina, Valle di Blenio)