Me ne vado! Il fenomeno delle ‘Grandi Dimissioni’

Vivere per lavorare oppure lavorare per vivere? Più che il verso di una nota canzone sanremese, oggi per molti è diventato un problema esistenziale

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

È successo qualcosa dʼimprevisto, o meglio, sta succedendo. ‘Sì, certo, una pandemia’, si dirà. Ma non è solo questo: si tratta delle implicazioni più o meno dirette che tale evento sta generando, come cerchi concentrici che si allargano a partire da un epicentro. Prendiamo la nostra vita lavorativa e professionale, per esempio…

Il primo a parlarne è stato Anthony Klotz, psicologo e professore di management alla Mays Business School presso la Texas A&M University, che nel maggio 2021 ha usato l’espressione “the Great Resignation” (“le Grandi Dimissioni”) per descrivere quanto stava accadendo. Nel mese precedente – aprile 2021 – qualcosa come quattro milioni di americani avevano lasciato il lavoro; quasi altrettanti avrebbero fatto lo stesso il mese successivo, e quello dopo ancora. Ma non si tratta di un fenomeno circoscritto agli Stati Uniti; anche in Europa, sebbene in forma più attenuata, sta capitando lo stesso, con la Germania in testa (6% della forza lavoro), seguita da Gran Bretagna (4,7%) e Paesi Bassi (2,9%). Dati preliminari sembrano indicare un andamento simile anche in Italia, sempre a partire dal secondo trimestre del 2021, mentre in Cina questa tendenza ha assunto una valenza sociale di protesta, tanto che l’espressione “Tang Ping” (“appiattirsi” o “sdraiarsi lunghi distesi”), usata per indicare una programmatica refrattarietà a ritmi di lavoro troppo stressanti, è stata censurata dal governo.

L’onda anomala

Le numerose dimissioni che stanno investendo mezzo mondo rappresentano un’anomalia rispetto a quanto storicamente riportato in altre epoche di crisi. Durante i periodi di instabilità economica, che tipicamente determinano un aumento dei tassi di disoccupazione, le persone tendono a tenersi stretto il proprio impiego, che gli piaccia o meno. Inizialmente la crisi occupazionale comportata dalla pandemia di Covid-19 – pensiamo per esempio a tutti i lavoratori impiegati negli esercizi commerciali, nei servizi alla persona e nel turismo – è coincisa, secondo le aspettative, con una diminuzione del numero dei dimissionari “volontari”. Tuttavia, a un anno di distanza da quel marzo del 2020 in cui ogni cosa sembrava essersi fermata, ciò che si riscontra è un’inversione di tendenza tale per cui la richiesta di manodopera sembra a tratti sopravanzare la disponibilità dei lavoratori nel fornirla. Si tratta di una risposta paradossale, probabilmente senza precedenti, scaturita da una combinazione di elementi del tutto particolare.
Secondo l’economista Lawrence Katz (“I quit is all the rage. Blip or sea change?”, The Harvard Gazette, 20/10/21) la prima ragione è, appunto, il fatto che molte aziende hanno bisogno di assumere: “È successo che un sacco di persone hanno perso il lavoro all’inizio della pandemia e molte di loro non sono più tornate, soprattutto se non avevano la possibilità di riprendere le stesse mansioni che avevano lasciato”. Sopperendo in alcuni casi alle proprie necessità con i sussidi di disoccupazione, spesso provati sul piano privato e professionale dalle criticità della pandemia, molti lavoratori si sono disaffezionati all’attività che svolgevano, soprattutto quelli collocati nel settore dei servizi (negozi, ristorazione) dove si registrano i maggiori tassi di burnout.
Contemporaneamente, i lunghi periodi di chiusura hanno ridotto i consumi in misura significativa, costringendo loro malgrado le persone a risparmiare. Così, appena è stato possibile tornare a “circolare”, ci siamo tutti ritrovati con una gran voglia di spendere, tanto che per la prima volta da decenni l’inflazione sta aumentando (per non parlare della difficoltà nel reperimento di molte materie prime). Tutto questo si è tradotto in un incremento delle offerte di lavoro, e quindi in una maggiore facilità nel lasciare un impiego per assumerne un altro, magari con orari più flessibili e la possibilità di lavorare da remoto, che al momento sembrano costituire le forme d’incentivo più attrattive (“Great Resignation psychologist on quitting, pandemic, meaning of life”, Business Insider, 2/10/2021). Ma questo “mancato rientro” sembra sottendere dell’altro…


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La vita è breve (troppo breve)

“Dalla ricerca sulle organizzazioni sappiamo che quando la morte e la malattia entrano in contatto con la vita degli esseri umani, questo li porta a fare un passo indietro e a porsi domande di tipo esistenziale: Cosa mi rende davvero felice e mi dà uno scopo nella vita? Questo collima con il modo in cui sto vivendo ora? Così, in molti casi, queste riflessioni condurranno a svolte di tipo esistenziale”, afferma Klotz. Gli fa eco Victoria Short, CEO presso l’agenzia di lavoro temporaneo Randstad UK: “La pandemia ha modificato il modo in cui alcune persone vedono la vita, il lavoro, e ciò che vogliono da queste due cose. Ha fatto sì che gli individui riconsiderassero le loro priorità. Il Covid gli ha ricordato che la vita è troppo breve” (“The Great Resignation: almost one in four UK workers planning job change”, The Guardian, 1/11/2021). Sorprendentemente, sembra che i primi a “ricordarsene” siano proprio i più giovani. Secondo uno studio condotto dalla multinazionale informatica Adobe su 5’500 lavoratori (agosto 2021), “l’esodo è guidato principalmente da membri della ‘Generazione Z’ – gli ultimi a entrare nel mondo del lavoro – e dai ‘Millennials’”. Nello specifico, più della metà degli intervistati nati fra la metà degli anni Novanta e l’inizio degli anni Dieci del Duemila esprime l’intenzione di cambiare lavoro entro la fine dell’anno. Questi ragazzi riportano inoltre i maggiori livelli d’insoddisfazione rispetto al proprio impiego (59%) e al bilanciamento fra lavoro e vita privata (56%)” (“Study: Gen Z, Millennials driving the Great Resignation, U.S. News, 26/8/2021). È la cosiddetta Yolo economy (You-only-live-once) che sembra catalizzare la sensibilità delle ultime generazioni in maniera del tutto peculiare, il che in effetti non dovrebbe stupirci, considerato che sono quelle che stanno fronteggiando più da vicino il rischio concreto di un’estinzione. A fronte di una possibile catastrofe ambientale, sarebbe del tutto coerente aspettarsi che i giovani adulti di oggi avvertano con particolare urgenza l’esigenza di un approccio più “ecologico” alla vita, e quindi anche al lavoro. Gli incentivi economici e le possibilità di carriera, che per le generazioni precedenti sono stati tradizionalmente i due ordini di motivazione più importanti, sembrano perdere di mordente con i nuovi arrivati. E mentre le aziende faticano ad adeguarsi, si profila l’ipotesi che ciò a cui stiamo assistendo sia un cambiamento su larga scala del sistema valoriale delle persone.


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La via asiatica: accontentarsi di meno

Il caso cinese appare in questo senso significativo. Anche lì tutto è emerso nell’aprile 2021, quando un 26enne di nome Luo Huazhong ha pubblicato nel forum Baidu Tieba un post in cui spiegava le sue ragioni per una scelta di vita minimalista e “di basso profilo”. Luo raccontava di avere lasciato un lavoro in fabbrica che lo faceva sentire “vuoto” e di avere pedalato per 2’100 chilometri (dalla provincia di Sichuan fino in Tibet) per poi tornare nella sua città natale a leggere libri di filosofia, svolgendo lavoretti occasionali per mantenersi. La storia di Luo ha subito trovato risonanza sui social media, generando innumerevoli meme fra cui quello che dà il nome al movimento che ne è scaturito (“Un fiore appiattito – Tang Ping – è difficile da cogliere”). I giovani che vi si riconoscono rigettano o, quanto meno, si pongono una domanda circa l’opportunità di lavorare dalle 9 del mattino fino alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana – “sistema 996”, peraltro e forse non a caso decretato illegale dalla Corte Suprema del Popolo il 27 agosto scorso –, così come propugnato dal modello produttivo cinese anche in ragione della pressione demografica creata dalla “politica del figlio unico” , che vede questa generazione sobbarcarsi la precedente, che sta ora andando in pensione e che è il doppio della sua.
Il Tang Ping, che consiste nel “non lavorare troppo, accontentarsi di raggiungere obiettivi ragionevoli e concedersi del tempo per rilassarsi” , ha suscitato la reazione immediata del Partito Comunista Cinese (CCP) che lo ha definito vergognoso e involutivo, mentre il CAC (Cyberspace Administration of China), il potente ente regolatore preposto al controllo dei contenuti che circolano in rete, ha fatto rimuovere il post originale di Luo, ha reso inaccessibile un gruppo di discussione di circa 10mila iscritti sull’argomento e ha bandito le ricerche contenenti l’hashtag #TangPing. La realtà cinese è molto diversa da quella occidentale, ma alcuni temi di fondo appaiono simili (vedi sotto, ndr). Il 61% dei giovani lavoratori intenzionati a cambiare impiego in questa parte del globo afferma di volerlo fare per ottenere maggiore controllo sul proprio tempo, un tempo che forse percepiscono come più limitato, e quindi più prezioso.


“r/antiwork”: una persona sdraiata è l’iconico logo di chi ne ha piene le scatole di lavorare e propone un’esistenza senza sfruttamento professionale.

IL LAVORO E LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT

Sul piano psicologico, identificarsi con il proprio ruolo professionale non è quasi mai una buona idea: poiché ciascuno di noi aspira legittimamente a essere (o a diventare) un essere umano “completo”, qualificarsi unicamente attraverso l’attività che si svolge è riduttivo e potenzialmente depistante. Difficile però sottrarsi all’automatismo di dire (e pensare) sono (un impiegato/ingegnere/operatore ecologico ecc.) piuttosto che faccio (l’impiegato/ ingegnere/operatore ecologico ecc.). La centralità del lavoro nel definire una persona è frutto di un condizionamento che affonda le radici nell’etica Calvinista (XVI) e viene poi capitalizzato dagli attuali sistemi economici per incentivare i lavoratori a produrre, possibilmente in qualità. Tuttavia, come disquisisce J. Malesic in un bell’articolo uscito sul Guardian (“Your work is not your god: welcome to the age of the burnout epidemic”, 6.1.2022), “il sistema che conferisce stima ai lavoratori più dedicati è lo stesso che suscita ansia, un’ansia che può essere placata unicamente lavorando in maniera ancora più intensa”. Un antidoto a questo meccanismo consiste nel riconoscere valore e dignità a ciascuna delle dimensioni esistenziali in cui ci esprimiamo (emotivo-affettiva, ludico-creativa, spirituale ecc.) nella consapevolezza che “il tutto è più della somma delle singole parti”.

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