Metti un giorno con Martino Rossi
“Non è vero che Robin Hood ‘ruba ai ricchi per dare ai poveri’. È vero invece che ’riprende ai ricchi ciò che essi hanno rubato ai poveri’”
Di Lorenzo Erroi
Pubblichiamo l’editoriale apparso su Ticino7, allegato a laRegione.
Nato a Lugano nel 1944, ha militato in diversi partiti e movimenti tra i quali il Movimento di Opposizione Politica, il Partito Socialista Autonomo, la Lega Marxista Rivoluzionaria e il Partito Socialista. Laureato in Economia a Friburgo, ha lavorato all’Ufficio delle Ricerche Economiche del Cantone e ha tenuto corsi e seminari in varie università romande dal 1968 al 1997, poi è stato direttore della Divisione dell’Azione Sociale e delle Famiglie del Dipartimento Sanità e Socialità fino alla pensione, nel 2010. Ha due figlie e vive a Lugano.
Una grande casa colonica con un’ampia tettoia e tanti soppalchi, abitata da diverse famiglie. Un giardino nel quale la figlia Sara faceva il bagno nell’abbeveratoio delle mucche, e poi – è lei stessa a raccontarcelo – giocava “alla manifestazione” con gli altri bambini: “Uno faceva la polizia col tubo per innaffiare e noi marciavamo urlando ‘Pace! Pace!’”. Martino Rossi mi accoglie qui, spiegando che “la casa apparteneva a un barone che la affittava a una setta
giudaico-cristiana un po’ in crisi. Poi con altri compagni l’abbiamo comprata, a cavallo tra anni gli Settanta e Ottanta, e abbiamo avviato l’esperienza della cooperativa”. Quando dice ‘compagni’, come quando parliamo di politica e gli scappano termini come ‘sovrastruttura’ e ‘materialismo dialettico’, Rossi sorride. Non è un sorriso di abiura, ma neppure di nostalgia; si direbbe piuttosto la risata affettuosa di chi accetta i cambiamenti senza rinunciare alle idee.
Qui, tra gli uccellini e qualche insetto – “questi mi rovinano i pomodori” –, Rossi è arrivato a metà di un percorso politico già lungo. “Sono nato in una famiglia benestante e ultraconservatrice. Mio padre era un cattolico con vagheggiamenti monarchici, già fascista militante, poi cultore della corona inglese. Mia madre era appena più liberale, nel senso che era lei, pur cattolica, che in casa ripeteva il detto ‘uregiatt fals e busard’. Ma quello, a casa mia, era il massimo della dialettica politica”. All’università a Friburgo anche Rossi entra nell’associazione studentesca Lepontia, legata al Ppd, che ha presieduto. “Ma erano gli anni del Concilio Vaticano II e della Pacem in Terris di Papa Giovanni XXIII, di Padre Balducci e dei ‘cattolici del dissenso’, di don Milani e della sua Scuola di Barbiana, che ci portarono poi a leggere i teologi della liberazione in odor di marxismo”. È allora che Rossi e altri ticinesi – tra i quali il futuro procuratore e avvocato Paolo Bernasconi, di area liberale, e Giorgio Canonica, di area socialista – cercano di superare la divisione tra Lepontia e l’equivalente associazione vicina al Plr, Goliardia, formando l’Arusi (Associazione Rappresentativa degli Universitari della Svizzera italiana): “Per rappresentare i diritti degli studenti le camicie di partito ci stavano strette, anche se poi quell’esperienza fu subito travolta dal movimentismo del ’68”.
Il Movimento di Opposizione Politica
È in quegli anni che Rossi comincia anche a vivere con fastidio le contraddizioni del mondo cattolico e si sposta più a sinistra. “Entrai nell’Action Syndicale Universitaire, che vedeva la lotta degli studenti vicina a quella dei lavoratori. Non posso dire che fossimo molto in chiaro su questa relazione, ma di certo pensavamo al nostro ruolo di futuri laureati come parte della forza lavoro più che del padronato, com’era stato invece destino per i pochissimi laureati dei decenni precedenti. Prendevamo ispirazione da testi come Stratégie ouvrière et néocapitalisme di Gorz. Un’esperienza che veniva dalla Francia, travolta poi, alla vigilia del Maggio ’68 da impostazioni più radicali e movimentiste ispirate a testi come De la misère en milieu étudiant dell’Internazionale Situazionista”.
Nel ’68 Rossi torna in Ticino con in tasca la laurea in Economia, inizia a lavorare per l’Ufficio ricerche economiche e insieme a Bernasconi, Canonica e sempre più aderenti porta in Ticino lo stesso tentativo di superare le ingessature partitiche: “Creammo il Mop, Movimento di Opposizione Politica, sempre in equilibrio tra lo spontaneismo da ‘autogestiti’ e un’organizzazione più strutturata. Vi si incrociarono personalità dell’opposizione interna al Pst, i futuri fondatori del Partito socialista autonomo, come l’architetto Marco Krähenbühl, Pietro Martinelli, Werner Carobbio, Franco Cavalli; dal Plr arrivavano radicali quali l’avvocato Mario Guglielmoni e il futuro procuratore Dick Marty; dal Ppd l’architetto Tita Carloni, lo scrittore Plinio Martini e persino Flavio Cotti, il futuro consigliere federale”. Anche in quel caso l’esperienza è bella ma dura poco: “Nel ’69 si creò il Psa, ma io e altri volevamo essere sempre più di sinistra…”, dice con un altro sorriso né autoindulgente, né sconsolato. “Ce l’avevamo con le formazioni troppo rigide, irridevamo il ‘cretinismo parlamentare’ condannato da Lenin, eravamo ancora più critici del Psa verso l’Unione sovietica e un comunismo burocratizzato, inquinato dallo stalinismo. Sicché facemmo quello che si fa spesso a sinistra: fuoriuscimmo”.
Nasce così la sezione ticinese della Lega Marxista Rivoluzionaria, “che esisteva già in Svizzera tedesca e romanda e ci aveva convinto per la sua ispirazione trotskista, critica, ma anche per il suo respiro internazionale: era parte della Quarta Internazionale”, quella fondata proprio da Trotskij nel 1938. “C’era il fascino di una lunga storia, avevamo anche il nostro giornale: ‘Rosso’. In quegli anni ho militato come un matto, conosciuto gente eccezionale dal punto di vista intellettuale e morale. Accanto al lavoro, a riempire le giornate c’erano le assemblee, le riunioni a Losanna o a Zurigo, le manifestazioni: per Allende in Cile e la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, contro gli americani in Vietnam… Quelli tra il ’68 e il ’78 sono stati i dieci anni più belli della mia vita politica”.
© Ti-Press
Schedature e pugni in faccia
Vita che si intreccia con quella privata, non sempre nel più semplice dei modi: “Si condividevano gli stessi valori, ma a volte si sacrificavano le relazioni interpersonali a favore dell’impegno collettivo. C’era anche l’idea libertaria e femminista di coppia aperta, bella in teoria, ma a volte difficile da mandare giù”. Intanto si intensifica la sorveglianza delle autorità, in quello che poi diventerà (anche) lo scandalo delle schedature. “Quando ho rivisto le informazioni che avevano raccolto su di me, mi veniva quasi da ridere. Avevano annotato che ero stato in vacanza in Cecoslovacchia e che ‘lavoravo giorno e notte per la rivoluzione’, ma non che avevo incontrato anche i palestinesi dell’Olp. Per anni mi sorvegliarono anche il telefono: conclusero che non facevo nulla di illegale, ma chiesero ai superiori di proseguire, perché ad ascoltarmi avevano imparato tante cose sulle relazioni della sinistra extraparlamentare”.
La militanza non è qualcosa di plumbeo, e resta lontana dalla violenza che negli anni Settanta lambisce l’esperienza di altri Paesi europei: “Una volta mi presi un pugno in faccia da due incappucciati che si presentarono a casa mia in piena notte, ma si trattava probabilmente di inviati da un mammasantissima di paese irritato dall’insolenza dei giovani ribelli, e finì lì”. Ci sono i viaggi in Sardegna, “a trovare i compagni del grande Pci, che ritenevamo troppo ortodossi, ma stimavamo”; o in Sicilia, “dai mistici maoisti di Servire il Popolo o dai pacifisti antimafia come Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Ma non è che facessimo solo politica, andavamo anche in spiaggia”. Di quegli anni sono anche i viaggi con la prima moglie Linda, pioniera della sessuologia in Ticino. Qui è la figlia Sara che ricorda: “La mamma raccontava che quando la andavi a trovare a Parigi arrivavi con la baguette e il giornale, per scegliere a quale manifestazione partecipare quel giorno…”.
Ma proprio i viaggi – in particolare a Londra e a San Francisco – fanno crescere i dubbi di Rossi sulle prospettive della Quarta Internazionale: “In Gran Bretagna erano gli anni delle lotte dei minatori contro la Thatcher, dei picchetti di massa: anni di grande confronto sociale, eppure il movimento cui appartenevo restava marginale. Ancor più in America, dove i militanti erano poche decine. Dovetti accettare che ci eravamo sbagliati a pensare di essere alla vigilia della rivoluzione; che la nostra lettura della realtà restava valida, ma le nostre previsioni erano falsate dai desideri giovanili”.
Il Nano come ‘avversario preferito’
Dagli anni Ottanta Rossi continua a lavorare come analista economico per il Cantone, “un lavoro che mi piaceva, e devo dire di non avere mai ricevuto particolari pressioni per via delle mie idee politiche”. Oltre a partecipare alla politica comunale come indipendente, avvia l’esperienza della cooperativa d’abitazione: “Ci piaceva l’idea di avere una casa insieme senza essere ‘padroni’ , c’erano i bei momenti comuni quando si faceva la legna o il fieno o si tosavano le pecore. Ma non fu un modo di ritirarsi dal mondo, non avevamo intenzione di creare un Monte Verità della rivoluzione. Poi però prevalse un po’ quello che all’epoca chiamavamo edonismo reaganiano, la cooperazione si incrinò a favore degli interessi particolari, ci toccò passare a una più convenzionale proprietà per piani”.
Dal 1997 al 2009, Rossi diventa direttore della Divisione dell’azione sociale e delle famiglie del Dss, prima con Pietro Martinelli, poi con Patrizia Pesenti. “Sono stati 12 anni di lavoro molto intenso in cui sono passato dalla teoria – il lavoro di analista – alla pratica del coordinamento e dello sviluppo delle politiche sociali cantonali: povertà e assistenza, richiedenti l’asilo, politica dell’alloggio, servizi per famiglie, anziani, invalidi, giovani. Ma non ho abbandonato la teoria come bussola dell’azione, trovandola soprattutto in ‘Una teoria della giustizia’ di John Rawls.
Negli anni Duemila Rossi tornerà a essere più attivo anche in politica, stavolta nelle fila del Ps (con la riunificazione di Pst e PSA) come suo capogruppo nel Consiglio comunale di Lugano. Questa volta dall’altra parte non ci sono solo ‘padroni’ e ‘borghesi’, ma la Lega di Giuliano Bignasca: “Era il mio avversario preferito, nonostante alcuni attacchi personali davvero meschini sul Mattino della Domenica. Si credeva invincibile, anche perché gli altri glielo facevano credere: Plr e Ppd strisciavano ai suoi piedi, come pure molti giornalisti. Per questo mi piaceva scontrarmi con lui. Come la volta in cui per scopi elettorali propose una tredicesima Avs comunale, ma solo per due anni: quello prima e quello dopo le elezioni per il Municipio. Gli dissi che era come Achille Lauro, il monarchico che per prendere voti regalava ai sottoproletari napoletani un paio di scarpe, la sinistra prima del voto e la destra dopo, solo se eletto”.
‘Non torniamo indietro’
Da pensionato Rossi continua a partecipare alla vita della sinistra, per cui cerchiamo di indovinare con lui a che punto sia la storia, e cosa gli insegni l’esperienza sul da farsi. Ancora un sorriso, misto a una signorile timidezza: “Penso che un insegnamento sia quello di confrontarsi sempre, di coltivare la democrazia interna, di difendere le proprie idee senza essere troppo dogmatici. Penso anche che non si debba tornare indietro, al keynesismo che andava bene per le economie chiuse durante le ‘Trente glorieuses’, ma guardare a soluzioni nuove per gestire le rivoluzioni tecnologiche e la precarizzazione del mondo del lavoro. Per esempio col reddito di base incondizionato, che una parte della sinistra ancora non accetta: darebbe a tutti la sicurezza necessaria per non soccombere all’insicurezza, e quindi anche alle tentazioni del populismo o di modelli di sviluppo autoritari come quello cinese”. Secondo Rossi “dobbiamo pensare a modi sempre nuovi per ripartire la ricchezza prodotta, anche a coloro che magari non figurano in quella miserabile misura del benessere che è il Pil, come chi lavora a casa o si impegna nella solidarietà. Lo sappiamo anche noi di sinistra che prima di ripartire bisogna produrre, ma forse è ora di pensare a modelli sociali più innovativi”.
SETTE LIBRI PER PENSARE (perché le buone idee non scadono mai)
1. Robin Hood
Il mio primo “manuale di formazione politica”. Perché non è vero, come molti sostengono, che questo eroe popolare “ruba ai ricchi per dare ai poveri”. È vero invece che Robin Hood “riprende ai ricchi ciò che essi hanno rubato ai poveri”: una “linea politica” sempre giusta!
2. Pacem in Terris, Enciclica di Papa Giovanni XXIII (1963)
Finisce il cattolicesimo “teocratico”, i cattolici (e io fra loro, all’epoca) sono liberati dalla camicia di forza democristiana, viene promosso l’incontro con la modernità, la sua scienza, le sue espressioni politiche (comunisti compresi). Una pietra miliare, una lettura da raccomandare a chi, ancora oggi, esibisce crocefissi, rosari e bibbie nei comizi politici.
3. Manifesto del Partito Comunista, K. Marx e F. Engels (1848)
Il punto di partenza di un metodo per leggere la storia, e di infinite lotte nel mondo che hanno accompagnato un secolo e mezzo di trasformazioni economiche e sociali. Nessuno lo dovrebbe ignorare. Da rileggere anche in Cina, nel centenario del loro partito comunista, meditando sulla visione fondamentale, che mi ha convinto: “Al posto della vecchia società borghese (…) subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.
4. De la misère en milieu étudiant, Internationale Situationniste (1966)
Circolato fra centinaia di migliaia di studenti, ha preparato la deflagrazione del Maggio ’68. Radicale, sovversivo, utopistico (l’autogestione come sola forma di organizzazione sociale). Studente borghese come molti, sono stato fulminato dall’incipit provocatorio: “Possiamo affermare senza grande rischio d’errore che lo studente in Francia è l’essere più universalmente disprezzato dopo il poliziotto e il prete”. Lettura consigliata a chi vuole confrontarsi con gli autogestiti…
5. Misère du présent, richesse du possible André Gorz (1997)
Uno degli ultimi scritti, un capolavoro, del grande analista e teorico del lavoro e delle sue trasformazioni, delle “riforme rivoluzio-narie” , dell’ecologia politica, dell’autonomia sempre da conquistare nella società dove tutto è merce. Dagli anni Settanta, Gorz mi ha aiutato a capire il mondo e a mantenere viva la voglia di cambiarlo. Perché se il presente è “miseria” , il futuro non è ancora scritto e può essere “ricchezza”: entrambe non riducibili al reddito.
6. Una teoria della giustizia, John Rawls (1971)
Un capolavoro di astrazione logica straordinariamente “pratico” per orientare le scelte concrete nella politica sociale, fiscale, economica. Uguale libertà, pari opportu-nità, disuguaglianza giustificabile solo se, e nella misura in cui, contribuisce a migliorare la condizione dei membri meno avvantaggiati della società: sono questi i principi di giustizia che scaturiscono da una scelta razionale, non dal buon cuore. Una guida fondamentale, per me, nel lavoro e nella politica.
7. Il reddito di base. Una proposta radicale, Ph. Van Parijs e Y. Vanderborght (2017)
Filosofo e sociologo dell’Università di Lovanio, sin dai primi anni Ottanta Van Parijs è il principale teorico e militante, a livello mondiale, del reddito di base incondizionato. Un nuovo paradigma per affrontare le sfide del XXI secolo coniugando i grandi valori di libertà e uguaglianza in modo economicamente efficiente. Imperdibile per chiunque si voglia “innovatore”.