Disavventure Latine 5. Adagio con Turbo
Partiti al mattino con un sacco di spazzatura in mano, arriviamo alla stazione degli autobus che sono ormai le 11 di sera. Ma mica è finita, pensavate eh?
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.
Volevo vedere il Canale di Panama perché da bambino sfogliavo quei libroni con le grandi opere dell’uomo. E poi volevo attraversare un confine. Un confine vero. Perché ormai in Europa, anche quando ci sono, è come se non ci fossero. Niente timbri, niente suspense, niente di niente. Ti giri e all’orizzonte vedi l’Ikea da tutte e due le parti. E non sai più se stai tornando a casa o se stai andando via. In America Latina, come altrove, le frontiere sono mondi a parte: faccendieri, cambiavalute, procacciatori di ogni genere di bene materiale e immateriale. Tra Panama e Colombia è un mondo ulteriormente a parte. Sempre se non scegli la via facile, l’aereo, o quella difficilissima, avventurarsi tra le boscaglie e i guerriglieri del Darién, al cui confronto i faccendieri di confine hanno la pericolosità dei puffi. Insomma, volevo entrare in Colombia in un modo un po’ avventuroso, ma possibilmente vivo. Ci sono arrivato via mare, su una barchetta grande quanto un divano, ma non altrettanto comoda. Da lì mi aspettavano la Cartagena di García Márquez, la Medellín di Escobar e la Bogotá di due tipi loschi col coltello. Ma ancora non lo sapevo.
© R. Scarcella
La barca balla, i sacchetti “potrebbero” servire…
Senza sacco della spazzatura non vai da nessuna parte. Senza sacco della spazzatura in barca non sali. Serve per proteggere il bagaglio dall’acqua e per costringerti a pagare un obolo extra (poca roba, un dollaro). Ma a vedere certe facce distrutte dopo due ore di traversata nel golfo di Urabà, forse – all’arrivo – il sacco sarebbe il contenitore giusto anche per molti passeggeri. Per lasciare Capurganá, avamposto di civiltà nella foresta colombiana ci sono due modi: uno facilissimo, l’aereo; uno folle, la barca. E chi dice il contrario è perché non ha mai attraversato il golfo di Urabá via mare.
La coda sul molo è disordinata e la gente viene fatta salire sulle barche apparentemente senza criterio. La mia, la penultima, è piena. L’ultima, più grande e che partirà pochi minuti dopo, sarà mezza vuota e avrà a bordo solo sei persone. Vomiteranno tutte, mi diranno. Sulla mia, alla partenza, ci chiederanno di pesare il bagaglio: se supera i dieci chili paghi un altro extra per ogni chilo. Il fatto che la bilancia parta da tre chili senza che ci sia nulla sopra non è questionabile. Ti dicono poi di tenere in mano un sacchetto e di non indossare nulla che possa cadere in acqua. Quando partiamo capiamo perché. Gli schizzi d’acqua sono secchiate e la barca continua a impennarsi sbattendo contro onde che si fanno sempre più alte e incattivite. Metà di noi userà i sacchetti dati in dotazione.
© R. Scarcella
Tutti a bordo, e che Dio ce la mandi buona.
‘Perdete ogni speranza…’
Dopo due ore di rodeo acquatico arriviamo a Turbo, sul lato del Golfo in cui esistono strade che ti collegano, con calma, con tutta la Colombia. Ci sarebbe anche un aeroporto, ma l’idea è di andare a Cartagena in autobus, perché fa molto Sudamerica, con le sue 7-8 ore di viaggio.Diventeranno quasi il doppio su un percorso che, stando ai soli chilometri, in una qualunque autostrada europea si completerebbe in meno di 4 ore. Turbo è un posto anonimo, e anche pericoloso, che la guida della Lonely Planet dice di evitare: e se proprio ci si deve fermare la notte per via di un autobus o di una barca, meglio non andare troppo in giro. La città, però, avrebbe una grande attrattiva non sfruttata, almeno per chi ha un debole per i film di Bud Spencer. A Turbo infatti è stato girato Banana Joe. Basterebbe una statua, un bar a tema, ma questa soddisfazione al turista di passaggio non la vogliono dare.
Il bus su cui salgo insieme ai miei 4 compagni improvvisati incontrati durante la precedente traversata via mare da Panama promette bene sin dal parabrezza, su cui c’è scritto, enorme, “Sin dios no soy nada” (senza Dio non sono niente). Tutt’intorno numeri, bandierine e il disegno di due donne scosciate. Il bus ha anche più passeggeri che sedili perché i bambini non contano, ma sono tantissimi. Il mio vicino di posto, con cui ci scambieremo cibo discutibile e bevande gassate iperzuccherate, viaggia con la moglie e 8 dei suoi 11 figli: sono sparsi qua e là nei sedili davanti a lui, uno passa quasi tutto il viaggio in braccio a un estraneo con infinita pazienza.
© R. Scarcella
“O la borsa o la vita”: tutto chiaro…
Spegnete il dj (per favore)
Nella televisione di bordo continuano a passare canzoni colombiane tutte uguali: un profluvio di amores y corazones cantati da cloni – più o meno credibili – di Enrique Iglesias. Le soste sono molte e tutte precedute da un forte stato di agitazione dell’autista che ripete che c’è poco tempo e che non aspettano nessuno: invece aspettano sempre tutti. E più siamo in ritardo, più le pause si allungano. In queste soste incontriamo autobus con scritte ancor più fantasiose e talmente grandi da ostacolare la visuale di chi guida e anche un autogrill il cui negozio di souvenir mette in bella mostra delle riproduzioni della Torre Eiffel senza un vero motivo. Siamo a oltre 100 chilometri da Cartagen, a mezzo mondo di distanza da Parigi.
Il peggio arriva verso sera, quando – già in ritardo sulla tabella di marcia – i lavori sulla carreggiata ci rallentano e l’aria condizionata salta. Ogni tanto sale qualcuno che vuole venderti qualcosa: dolci, torte, bibite. Un tizio dinoccolato e dalla voce rauca vende yucca, platani e cristianesimo. Infila Dio ovunque e forse alla fine di vendere yucca e platani gli interessa fino a un certo punto. Ripete continuamente “gracias a Dios”. Quel che è certo è che solo quando lui scende l’aria condizionata torna a funzionare, grazie a chi non si sa.
Nel frattempo uno dei miei 4 compagni di viaggio, Jazz, mi racconta che ha raggiunto gli amici arrivando da Buenos Aires, dove era protagonista di uno spot per la Coca-Cola. Dice che negli spot bevono una bevanda che non è proprio Coca-Cola, anche se lo sembra. Non è buona, ma devi fingere che lo sia. Nonostante tutto, vista la montagna di riprese, si beve tantissimo. Talmente tanto che l’attore giapponese che girava con lui a un certo punto e svenuto e l’hanno dovuto portare in ospedale. Troppi zuccheri. Storie così valgono un viaggio infinito in un bus senza un filo d’ossigeno? Per me sì.
© R. Scarcella
Souvenir poco “local”.
La meta è lontana
Partiti al mattino con un sacco di spazzatura in mano, arriviamo alla stazione degli autobus di Cartagena che sono ormai le 11 di sera. Neanche a dirlo, siamo ancora lontanissimi dal centro. Il tempo di prendere un taxi e fare una doccia e siamo già invitati a una festa in un locale tramite un ragazzo tedesco che non parla spagnolo, ma che ha saputo – chissà come – da un colombiano che non parla inglese né tedesco che era il compleanno di un indiano con la ragazza messicana. Beviamo rum, socializziamo, poi alle due di notte non ho più le forze, saluto tutti e torno in camera. Un’idea particolarmente saggia, la mia. Lo scoprirò il pomeriggio successivo quando i quattro si rifaranno vivi spiegandomi che intrattenersi con degli spacciatori in una piazza colombiana in piena notte non è una buona idea. Ma va?
© R. Scarcella
Il molo come è oggi, lo stesso ritratto nella nota commedia con Bud Spencer.
© R. Scarcella
Niente armi, pf.
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La musica che NON concilia il sonno.
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A Turbo (in nome della sicurezza).