Insomma, quante sarebbero: una, alcune o parecchie razze?

ʻNo, la razza non esiste. Sì, la razza esiste. No, certo essa non è ciò che si dice che sia; tuttavia essa è la più tangibile, reale, brutale, delle realtàʼ

Di Demba Dieng

Che dite, aveva forse ragione la sociologa francese Colette Guillaumin (1934-2017)? 

Non è possibile separare la nozione di razza da quella di razzismo, se non in modo puramente formale. Certamente possiamo usare delle definizioni che ci aiutino a circoscrivere questi due concetti; ma applicata all’uomo, la parola “razza” è una parola ambigua, sospetta. Non soltanto ricorda il periodo del nazismo (quello della presunta “razza pura”), ma anche i secoli XVIII e XIX, durante i quali rinomati biologi credettero di poter stabilire una gerarchia fra le razze. Oggi regna una ‘confusa confusione’ in seno alla comunità scientifica: alcuni rigettano categoricamente il concetto di razza, lo ritengono sprovvisto di senso e sostengono la loro posizione con molta determinazione, sperando di non contribuire a svegliare i vecchi demoni. Altri, invece, non si fanno alcuno scrupolo a usare il concetto di razza, rischiando così di flirtare con l’ideologia dell’esclusione o di fornire, su un piatto d’argento, le armi con le loro munizioni a certe persone che da sempre frugano la scienza alla ricerca di giustificazioni per il loro razzismo. 


© Wikipedia
Georges Cuvier (1769-1832)

Partiamo dalle radici

Per vederci più chiaro, prima di tutto ricordiamo il posto dedicato all’umanità nella classificazione elaborata dagli zoologi. L’uomo, dicono questi, appartiene alla “classe” dei mammiferi, “all’ordine” dei primati, alla “famiglia” degli ominidi umani, al “genere” Homo e alla “specie” sapiens. I biologi concordano nel sostenere che una “specie” è composta di un insieme di individui capaci di riprodursi tra di loro, i cui discendenti sono fertili. Gli umani appartengono quindi a una e medesima specie. Da qui in poi, però, le cose si complicano e lo stesso termine ‘razza’ diventa una parola trabocchetto, mentre quelli che la usano sono raramente esenti da scopi reconditi. Come mai? Il senso comune ci induce a classificare gli umani in diverse categorie sulla base di criteri immediatamente percepibili. I criteri più importanti sono il colore della pelle, quello dei capelli, la forma del viso, la taglia ecc. È così che nel linguaggio corrente parliamo di razza bianca, gialla e nera. Per molto tempo, i biologi sono stati maestri nel promuovere tali classificazioni; alcuni di loro, Georges Cuvier per esempio, hanno preso in considerazione soltanto tre razze, mentre altri sono arrivati fino a quattrocento. Darwin, forse più perspicace, non si è mai pronunciato al riguardo. Il disaccordo nato tra i sapienti avrebbe dovuto sollevare dubbi sulla pertinenza di tali classifiche e illustra in ogni caso le difficoltà del loro esercizio.  A ciò si aggiunga che per diversi secoli i biologi non si sono limitati a classificare, ma hanno tentato di gerarchizzare le razze, issando ovviamente quella bianca, al di sopra di tutte le altre. È con la fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto nei primi anni Sessanta del Novecento, che gli scienziati hanno iniziato a modificare radicalmente i loro approcci alla problematica “razza”. Per diversi biologi contemporanei usare i caratteri apparenti per classificare gli umani non è più un passo corretto. Meglio rivolgersi soltanto alla genetica (quindi a caratteri invisibili) per verificare la validità del concetto. E cosa dice la genetica?


© dalla mostra “1938: che razza di… stampa! – Cesena, 2018
L’albero della vita secondo alcuni (o della discriminazione, fate voi).

Sfumature, altro che colori

La genetica afferma che i geni umani conosciuti sono praticamente gli stessi ovunque nel mondo. Essa sostiene inoltre che non esiste un gene specifico della pelle bianca, della pelle gialla e della pelle nera. L’aspetto più o meno scuro deriva da una pigmentazione, sempre presente, ma in quantità variabile nel corpo degli umani. Questa pigmentazione è una melanina la cui sintesi è controllata da vari geni ancora sconosciuti. Gli uomini di conseguenza non sono bianchi, gialli o neri ma semplicemente più o meno scuri secondo sfumature progressive e continue. I genetisti affermano pure che le variazioni genetiche osservate sono sempre quantitative e non qualitative; questo sta a significare che certi geni mostrano pochissime variazioni da una popolazione all’altra, mentre altre ne presentano di importanti (per esempio, quelli che permettono di codificare i gruppi sanguigni e quelli che producono gli anticorpi di difesa contro le malattie infettive). Infine, altri geni sono presenti nelle stesse proporzioni in tutte le popolazioni del pianeta terra. Il risultato generato da queste scoperte è fondamentale. Ci dice che è una pura illusione quella di stabilire dei limiti o dei confini tra le “razze”, peraltro con un’umanità mai isolata e in costante movimento. Per questo il biologo François Jacob sostiene che “la distanza biologica tra due persone dello stesso gruppo, dello stesso paese è così grande, che rende insignificante la distanza fra la media di due gruppi, e ciò toglie ogni contenuto al concetto di ‘razza’”. Già nel 1972, durante il suo corso inaugurale al Collège de France, il genetista Jacques Ruffié affermò che la nozione di razza non ha fondamento scientifico. Nessun biologo degno di questo nome ha, da allora, rimesso in discussione questa incontestabile progressione della scienza. 

Parliamone senza tabù

Eppure altri biologi altrettanto rinomati, in particolare negli Stati Uniti e in Inghilterra, usano correntemente la parola “razza”, così come d’altronde le persone comuni (l’espressione “il genere umano” è tradotta in inglese in the human race). Luca Cavalli-Sforza, professore di genetica all’università di Stanford, mondialmente conosciuto per le sue ricerche concernenti la genetica delle popolazioni, riconosce che la distinzione fra le razze è un’impresa complessa: dobbiamo sempre basarci su delle statistiche di frequenza di un importante numero di caratteri di molti individui, mai su un solo carattere. Però, in una sua recente pubblicazione, redatta insieme a suo figlio Francesco (Chi siamo?; Codice Edizioni, 2013), ha posto la questione sulla quantità delle “razze” sulla Terra e sull’esistenza della “razza” ebrea. Tuttavia, il professor Cavalli-Sforza non può essere sospettato di essere un ideologo di teorie razziste. Ormai, nelle università americane, la biologia delle razze è insegnata agli studenti e diversi libri trattano questo soggetto; una realtà che sembra essere impensabile in Francia e anche negli altri paesi europei, almeno negli stessi termini. Per esempio, nel suo libro per studenti Human Biodiversity (1995) John Marks dedica un capitolo intero all’antropologia razziale e razzista. Ammettendo comunque le difficoltà che genera tale esercizio, ritiene che “racial studies need not imply racist conclusions” (gli studi sulle razze non implicano conclusioni razziste). In maniera manifesta, la parola “razza” non è un tabù nella letteratura scientifica anglosassone. Il dibattito, dunque, resta aperto. Con un caveat: quale che sia l’utilizzo ‘scientifico’ del concetto di razza, con tutti i suoi limiti e i suoi rischi, in nulla e per nulla esso potrà ancora ammettere una strumentalizzazione in senso razzista.

 

 

 

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