I palchi di Ursula Rampoldi

Il suo è un mestiere fatto di carne, ossa ed emozioni, per dirla con le parole di uno dei suoi utenti. E una buona dose di umanità

Di Martina Parenti

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Classe 1976, è un’animatrice socioculturale che lavora a stretto contatto con persone affette da dipendenze e da patologie psichiche. Vive ad Arzo con il marito infermiere e due figli. Appassionata di teatro e video, gestisce diversi atelier di creazione. I corti e i documentari da lei realizzati con gli utenti hanno avuto riconoscimenti e sono stati ospitati all’interno di festival e rassegne. Da anni collabora con il Festival di narrazione di Arzo.

Ci sono mestieri che non sono per tutti. E ci sono abilità che non si possono insegnare perché hanno a che fare con qualcosa di innato: o lo si possiede già o è meglio lasciar perdere. Si potrebbe quasi parlare di un sesto senso. Un po’ come quello del piccolo Cole, protagonista del film The Sixth Sense di M. Night Shyamalan, in grado di vedere e parlare con i morti. Ursula Rampoldi non è certo in contatto con il soprannaturale, anche se il suo lavoro la porta quotidianamente ad addentrarsi nel mondo misterioso, complesso e spesso invisibile delle dipendenze e della salute mentale. “Non parliamo di vocazione, per favore!”, dice ridendo, “faccio quello che mi piace fare. Negli anni ho solo assecondato il mio desiderio di lavorare nella relazione di aiuto. In fondo mi sento una privilegiata”.Dopo la formazione terminata con la laurea in Lavoro sociale presso la SUPSI, Ursula comincia il suo percorso in una struttura dedicata al servizio per le tossicodipendenze per poi diventare animatrice socioculturale presso il Club ’74 di Mendrisio, in cui lavora da 15 anni. Attualmente si muove anche tra i club socioterapeutici di Chiasso e Lugano sulla scia di quel processo di democratizzazione della psichiatria inaugurato negli anni Sessanta dallo psichiatra Jean Oury. 


© Ti-Press / Francesca Agosta

Lo specchio della mente

Aprire le porte, ridare dignità, cittadinanza e parola a persone affette da disagio mentale: sono queste le basi di un lavoro che conduce a confrontarsi con le manifestazioni estreme dell’animo umano e in cui è dunque fondamentale saper governare la propria emotività. D’altra parte la follia è un inquietante specchio in cui sono riflesse, nel bene e nel male, tutte le potenzialità della nostra mente. “Lavoriamo su progetti socioculturali – racconta Ursula – e ogni club ha diversi atelier: cucina, falegnameria, teatro, gruppi di parola, la gestione del bar. Ogni proposta nasce anche in base a ciò che gli utenti desiderano sperimentare. Tutte le attività mirano a creare un senso di comunità che li porti ad avere una visibilità e un ruolo anche nel mondo esterno”. 
Perché, che lo si ammetta o no, una barriera invisibile ma coriacea esiste. Ed è fatta soprattutto di pregiudizi e della poca conoscenza che la maggior parte di noi ha verso chi abita una quotidianità molto diversa dalla nostra, ben più faticosa e turbolenta. E, come di solito accade, ciò che esula dal senso comune rischia di venire escluso e dimenticato. Trovare il modo di abbattere questa separazione creando un punto di contatto è ciò che i club del territorio tentano di fare tutti i giorni, usando anche l’arte come mezzo. Uno degli strumenti privilegiati da Ursula è infatti il video, perché permette di raggiungere un vasto pubblico e di dare valore al lavoro. Una passione, questa, nata dalla collaborazione con il movimento internazionale di cineasti Kino. Molti sono i corti e i documentari prodotti dal Club ’74 che sono arrivati a partecipare a Festival e rassegne.
“Una delle mie soddisfazioni più grandi è stata la proiezione del corto realizzato con Olmo Cerri Le nostre storie meravigliose al Festival internazionale di cinema giovane Castellinaria. Avevamo fatto un buon lavoro ed eravamo davvero riusciti a raggiungere un pubblico diverso”. Non si tratta di contenuti autoreferenziali, ogni progetto sviluppa infatti un tema preciso come accade in Una fiamma di candela – La famiglia: questa fragile risorsa, documentario realizzato in occasione del “Mese delle dipendenze 2011” e incentrato su interviste ai familiari di alcolisti e a professionisti del settore. Nonostante lavori con l’arte, Ursula non si reputa un’artista: il video è prima di tutto uno strumento eccezionale per fare squadra. Per esempio, durante il lockdown si è rivelato utilissimo a mantenere un contatto. 


© Ti-Press / Francesca Agosta

Emozioni in gioco

“Fin dall’inizio ci siamo attivati per affrontare insieme la difficoltà dell’isolamento, particolarmente pesante per chi già soffre la solitudine. E così ci siamo rimboccati le maniche spostando le attività sulle piattaforme online”. Nei mesi di confinamento l’atelier è riuscito a realizzare alcuni corti registrati in videoconferenza e poi proposti per la campagna Più veloci del virus. La cosa ha funzionato e la connessione anche. “Ma, soprattutto abbiamo fatto grandi chiacchierate, lezioni di ginnastica e anche di cucina. Ogni sabato sera eseguivamo insieme un piatto proposto a turno da uno di noi. Abbiamo preparato pizze, gnocchi, crostate, sfogliatelle, trecce e tanti altri manicaretti che abbiamo raccolto nel nostro ricettacolo e pubblicato con tanto di foto e ricetta sul blog dei Club. Altro che MasterChef!”.
Anche il teatro ha molta importanza nelle attività di Ursula che nel tempo libero partecipa all’organizzazione del Festival di Narrazione di Arzo. “Il teatro è un mezzo potentissimo perché mette in gioco l’emozione e può toccare diverse fragilità. Ad Arzo, come nel mio lavoro, mi piace il tipo di partecipazione che si crea in quei giorni. Gli artisti si esibiscono per lo più nei cortili di case private e questa apertura delle porte rispecchia esattamente quello che cerco di fare ogni giorno. Negli anni con i club abbiamo avviato diversi atelier teatrali affidandoci a registi esterni e condividendo con i partecipanti l’emozione e l’ansia del palcoscenico”.
Quello di Ursula è un mestiere fatto di carne, ossa ed emozioni, per dirla con Patrick, uno degli utenti, che descrive il centro diurno come un essere umano a tutti gli effetti, un’entità che brilla di luce propria. Una frase che riassume alla perfezione un percorso dove al centro c’è un’umanità palpitante, presente e finalmente visibile.

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