Covid-19. Lo strano caso dei resistenti

Esposti al virus ma senza sintomi o test positivi. I ricercatori ipotizzano delle mutazioni genetiche, ma nulla è certo e la medicina avanza per ipotesi

Di Marco Jeitziner

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Perché un membro di una famiglia non ha mai avuto sintomi dovuti al SARS-CoV-2, né si è mai ammalato di Covid-19, mentre gli altri sì? Ci sono infatti persone che risultano sempre negative ai test e malgrado l’esposizione al patogeno sono – come per altri virus – praticamente resistenti, quindi incapaci di trasmettere la malattia. Questa fetta di popolazione, rimasta imbrigliata suo malgrado nella “regola 2G” (guarito o vaccinato), rappresenta la più recente e importante frontiera che la comunità scientifica sta cercando di superare. La rivista Nature (ottobre 2021) è stata tra i primi ad annunciare che un “team internazionale di ricercatori vuole trovare persone che sono geneticamente resistenti alla SARS-CoV-2, nella speranza di sviluppare nuovi farmaci e trattamenti”. Vediamo quali sono, per ora, le ipotesi – anche plausibili ma non ancora supportate da evidenze scientifiche – sufficientemente robuste.

Dipende dal sangue?

Sin dall’inizio si è ipotizzato che c’entrasse il tipo di sangue (O, A, B, AB, +/-) e che quello di tipo O proteggerebbe maggiormente. Alcuni studi pre-print – cioè non ancora revisionati da altri ricercatori; documenti reperibili sul portale medrxiv.org – sostenevano questa tesi. Uno pubblicato nel settembre 2020, sulla base delle analisi di oltre 14mila persone testate contro il virus, affermava di aver “trovato una prevalenza di infezione leggermente aumentata tra i tipi non-O” e che “il gruppo sanguigno Rh-negativo ha un effetto protettivo”. Ma un anno dopo la tesi è stata scartata e non sembrano esserci evidenze. Su Nature (ottobre 2021) si legge, per esempio, che uno dei motivi risiederebbe “nel gene responsabile del gruppo sanguigno di tipo O, ma il suo effetto protettivo è piccolo” e “non è chiaro come viene conferito”, affermava l’immunogenetista statunitense Mary Carrington. Ci sono quindi altri motivi genetici, ecco perché all’indagine si è unito il Covid Human Genetic Effort (CHGE), un gruppo di ricerca internazionale di cui fanno parte la Carrington e diversi scienziati, tra cui l’immunogenetista svizzero Jacques Fellay (vedi intervista più sotto, ndr). Tra gli scopi del CHGE c’è quello di scoprire le “varianti genetiche singole, rare o comuni, che rendono alcuni individui resistenti all’infezione da parte della SARS-CoV2 stessa, nonostante l’esposizione ripetuta, o resistenti allo sviluppo di manifestazioni cliniche nonostante l’infezione”.


© Ti-Press

L’azione degli interferoni?

Proprio il CHGE ha proposto un’altra ipotesi pubblicata sul Journal of Clinical Investigation (agosto 2021). Il linguaggio è molto tecnico, ma alla base dell’infezione che conduce a forme gravi di Covid-19, vi sarebbero i cosiddetti “errori congeniti di immunità” (IEI, in inglese), che possono essere sia rari sia molto comuni. Si pensa che i casi gravi della malattia sarebbero associati a “rare varianti predette di perdita di funzione dei geni IFN (interferoni, ndr) di tipo I”. In pratica, ci spiega il sito di divulgazione quotidianosanita.it, vorrebbe dire che, quando il sistema immunitario incontra dei patogeni, esso non produce abbastanza di queste “molecole ad azione infiammatoria fondamentali per la nostra sopravvivenza”, soprattutto gli IFN di tipo I. La loro produzione appare cioè “diminuita o ritardata” nei soggetti gravi. Ne consegue che le persone resistenti al virus ne produrrebbero in numero sufficiente. L’ipotesi è stata confermata ancora di recente, nel gennaio 2022, dopo uno studio italiano pubblicato sulla rivista Plos Pathogens (settembre 2021). Un team di ricerca coordinato dall’Istituto superiore di sanità italiano, afferma che “il virus promuove un importante rilascio di IFN di tipo I e III e di citochine e chemochine infiammatorie (…)” e che “l’IFN di tipo I (…) è in grado di stimolare la risposta antivirale nelle cellule epiteliali polmonari infette”. Ma questa è soltanto una delle piste indagate.

Questione di recettori?

Un’altra ipotesi tra le più accreditate, scrive Nature (ottobre 2021), riguarda invece il cosiddetto “recettore ACE2” (o “enzima di conversione dell’angiotestina 2”), in pratica la porta d’entrata nelle cellule umane della famosa proteina spike del virus. Questo recettore si trova sulle cellule di vari tessuti e organi, ma soprattutto nel sistema respiratorio (naso, polmoni ecc.). Vari studi sembrano concordare sul fatto che, scrive Nature, “alcune persone non hanno un recettore ACE2 funzionante” e ciò non permette al virus di passare. Leggiamo che “i ricercatori hanno identificato un possibile legame tra una rara mutazione che probabilmente riduce l’espressione del gene ACE2 e una diminuzione del rischio di infezione”, scrive sempre Nature citando uno studio non revisionato (pubblicato sul già citato portale medrxiv.org, giugno 2021). Questo stesso meccanismo fu già osservato negli anni Novanta con l’AIDS. La testata scientifica cita anche il caso di persone resistenti che “potrebbero avere risposte immunitarie molto potenti, specialmente nelle cellule che rivestono l’interno dei loro nasi”. Ciò sarebbe vero soprattutto nei bambini, afferma il sito dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, i quali molto spesso hanno zero (o pochi) sintomi: si parla di “ridotta presenza sulle cellule dell’epitelio nasale dei bambini sotto i 10 anni rispetto agli adulti”. Del resto sembrerebbe ormai noto che l’età è un fattore discriminante per infettarsi e ammalarsi. A Nature l’immunologo greco Evangelos Andreakos, anch’egli membro del CHGE, sostiene che “alcune persone potrebbero avere mutazioni che aumentano i geni che impediscono al virus di replicarsi e riconfezionarsi in nuove particelle virali, o che abbattono l’RNA virale nella cellula”.


© Ti-Press

Il ruolo cellulare?

Un’altra ipotesi riguarda le cosiddette “cellule T” (o “linfociti T”), fondamentali per il sistema immunitario perché capaci di riconoscere un patogeno e quindi di indurre altre cellule, quelle “B”, a produrre anticorpi. In un certo senso hanno una ‘memoria’ e si ‘ricordano’ delle infezioni passate, innescando una robusta risposta immunitaria. Secondo Science, in un contributo già del maggio 2020, le persone resistenti “molto probabilmente” hanno avuto “un’infezione passata con uno dei quattro coronavirus umani che causano il raffreddore”, le cui proteine assomigliano a quelle del SARS-Cov-2. Ciò avvalorerebbe la tesi del 2020 del più noto e controverso immunologo svizzero, l’ex professore emerito a Berna Beda Stadler, e cioè che molti di noi (ma quanti non si sa) “sono comunque immuni al Coronavirus e hanno formato anticorpi”, perché hanno “già avuto altri Corornavirus simili”. Science cita uno studio non revisionato dell’immunologo tedesco Andreas Thiel, il quale ha scoperto che nel sangue del 34% delle persone “non infette” esaminate sono state trovate le cosiddette “cellule T helper” (o “linfociti T CD4 helper”) che riconoscono il nuovo virus. In gergo questa si chiama “reattività crociata” (crossreactivity), ed è stata rilevata anche “in circa la metà dei campioni di sangue conservati e raccolti tra il 2015 e il 2018”, ovvero ben prima dello scoppio dell’attuale pandemia. Altri studi suffragano questa tesi. Nel Regno Unito, riporta Nature (novembre 2021), su una sessantina di operatori sanitari un terzo non è mai risultato positivo e non ha mai prodotto anticorpi a quattro mesi dal controllo, ma le “cellule T” “si erano moltiplicate”, così come la proteina “IFI27” (un interferone). Ciò significa che il virus è entrato nel corpo ma non ha attecchito. La pandemia di SARS-Cov-1 (2003-2004) tuttavia insegna. Il British Medical Journal (settembre 2020) ricorda infatti che studi a Singapore hanno trovato nei pazienti “cellule T reattive” a quel virus ben “17 anni dopo l’infezione”. Ma la prudenza è d’obbligo: oltre ai campioni ristretti di questi studi, la letteratura precisa che non ci sono prove che l’immunità ai raffreddori spieghi la resistenza al nuovo virus, né che le persone resistenti non si ammaleranno mai.

La via della lectina?

Fra le tesi più recenti vi è anche un po’ di Ticino. Si tratta della cosiddetta “immunità innata” (o aspecifica), quella per esempio dei globuli bianchi, che nell’uomo è affiancata da quella “adattativa” (o acquisita), basata invece sui linfociti (“cellule T” ecc.). Nel primo caso abbiamo a che fare con “la prima linea di difesa del nostro organismo” che “risolve il 90% dei problemi causati dal contatto con batteri e virus”, ha comunicato l’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona. La ricerca, guidata dagli italiani di “Humanitas” e dell’Ospedale San Raffaele di Milano, appare su Nature Immunology (gennaio 2022). Poiché l’immunità innata precede quella adattativa e la mette in azione, il gruppo di studio ha scoperto che una molecola contenuta nel plasma del sangue, chiamata “lectina legante il mannosio” (in inglese Mannose Binding Lectine o MBL), si lega alla famosa proteina spike del virus e lo blocca, ha spiegato Alberto Mantovani, direttore scientifico di “Humanitas”. In pratica la MBL sarebbe capace di ‘vedere’ il virus e le sue varianti. L’analisi genetica dei pazienti ha quindi rivelato che delle “variazioni genetiche di MBL sono associate a gravità di malattia da Covid-19”, ma ancora non si sa perché, né se ciò potrà servire a sviluppare nuovi farmaci oppure trattamenti.


© Ti-Press

L’ESPERTO – “Una resistenza completa non è certa”

Per capire qualcosa in più rispetto ad alcune delle tesi finora esplorate (e sulle quali la prudenza è d’obbligo), abbiamo chiesto il parere all’immunogenetista svizzero Jacques Fellay del Politecnico federale di Losanna.

Professor Fellay, possiamo stimare la percentuale di persone in Svizzera che sono “resistenti” al virus?
“Purtroppo non è possibile. Non è nemmeno certo che nell’uomo esista una resistenza completa all’infezione. Se questo è il caso, il numero di persone interessate sarà probabilmente molto limitato”.

Un’ipotesi riguarda il “recettore ACE2”: qual è la sua opinione in merito?
“È un’ipotesi interessante, dato che ci sono variazioni nel genoma umano che proteggono dall’infezione da certi virus: per esempio, una mutazione nel gene CCR5 protegge dall’HIV, una mutazione nel gene FUT2 protegge dal rotavirus. Tuttavia, non c’è una forte evidenza in questa fase che le mutazioni nel recettore ACE2 prevengano l’infezione da SARS-CoV-2. Ciò può essere dovuto al fatto che l’ACE2 svolge un ruolo essenziale nell’equilibrio fisiologico e quindi non può essere completamente assente nell’uomo. È possibile che alcune mutazioni abbiano un effetto sul rischio di infezione, ma questo non è ancora stato dimostrato”.

Un’altra ipotesi è legata alle “cellule T” in grado di riconoscere il SARS-CoV-2, dato che sono preesistenti in alcune persone, e alle “cellule B”. Cosa ne pensa?
“L’immunità cellulare (cellule T) e l’immunità umorale (cellule B e anticorpi) svolgono un ruolo essenziale nel controllo della malattia nelle persone infette. Tuttavia è molto meno probabile che prevengano l’infezione, dato che il loro modo di agire è piuttosto lento, dell’ordine di qualche giorno. Le tracce di immunità preesistenti dovute all’esposizione ad altri coronavirus da sole non possono bloccare l’ingresso della SARS-CoV-2”.

Ci sono quindi altre strade di ricerca che gli scienziati stanno attualmente seguendo? Quali?
“Ora comprendiamo le principali interazioni tra il virus e le cellule umane, ma c’è ancora molto da scoprire. È quindi molto probabile che fattori ancora insospettati giochino un ruolo nella suscettibilità individuale all’infezione da SARS-CoV-2. L’approccio più promettente per scoprire questi fattori è analizzare i genomi di molte persone che non sono state infettate nonostante l’esposizione ripetuta. Forse questo fornirà nuove piste per migliorare la prevenzione o il trattamento di Covid, o anche un futuro coronavirus”.

Articoli simili