I migliori panchinari del jazz (secondo me)

Quali sono i dischi belli, bellissimi, ma che non rientrano nel solito canone dei primi 10? Ecco una possibile classifica, tanto per cominciare

Di Sandro “Tondo” Bassanini

Pubblichiamo un articolo apparso lo scorso 7 novembre su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Mio padre aprì un jazz club a Milano nel 1960. Di fatto era una scusa – per lui e per cinque suoi amici della Bocconi – per affittare una ‘man cave’, un rifugio per soli uomini dove fumare sigarette, bere oltremisura, sparare cazzate e ascoltare musica. Quella musica era il jazz. Nel febbraio 1963 però nacque il mio fratello maggiore e, quando a novembre dell’anno successivo nacqui anch’io, il club dovette chiudere. Così, volente o nolente, mio padre portò a casa la sua collezione di dischi Satanic Vinyl e cominciò a impestare le nostre orecchie. Piangevamo ogni volta, ma non c’era verso: a casa nostra il jazz suonava a ogni ora del giorno, incessantemente, senza tregua, e mio padre non mollava. 
Nel 1976 avevo dodici anni, e a quel punto ero ormai certo di odiare il jazz. Il solo fatto di sentirlo menzionare mi bastava per buttarmi sui Grateful Dead, i Black Sabbath, i Led Zeppelin, e più in generale qualsiasi cosa ‘heavy’, ‘hard’, purché insomma non fosse jazz. Poi arrivò il 1977, o meglio: arrivarono due minuti di basso elettrico capaci di fare qualcosa che non avevo mai sentito prima. E poi arrivava la melodia che esplodeva, ti catturava e non ti mollava più. In 5 minuti e 59 secondi, Birdland dei Weather Report cambiò per sempre il mio modo di intendere il jazz. Da quel momento imparai a tenere la testa e le orecchie più aperte, a capire che per apprezzare il jazz può servire tempo.
L’ho fatta lunga, sorry, ma era per spiegarvi l’approccio dietro alla mia scelta: non i dieci dischi più famosi o più celebrati o più ‘belli’ in assoluto, ammesso e non concesso che il bello si lasci misurare. Semplicemente dieci dischi comunque iconici, ciascuno a modo suo, che potrebbero farvi avvicinare al genere se per voi ancora rimane un tabù.

10. Weather Report
ʻHeavy Weatherʼ (Columbia, 1977)
Devo rispiegarvelo? Rileggete l’introduzione qui a lato.

9. Jimmy Smith
ʻThe Catʼ (Verve, 1964)
Il Lalo Schifrin di Mission impossible e l’organo Hammond di ‘The Incredible’ Jimmy Smith si incontrano. Il risultato è un tipo di jazz che molti hanno criticato ma guarda un po’ continua a piacere: quelli che hanno il disco continuano a ‘metterlo su’ a oltranza…

8. Getz/Gilberto
ʻGetz/Gilbertoʼ (Verve, 1964)
Morbida come il miglior bourbon, una registrazione fuori dal tempo che darà sollievo alla vostra anima e vi aprirà le porte del Latin jazz e della bossa nova. La ragazza di Ipanema è un brano ritenuto responsabile d’innumerevoli gravidanze.

7. Chick Corea
ʻReturn to Foreverʼ (ECM, 1972)
Entrate nella fusion un passettino alla volta, o rischierete di annegare. Qui potrete avventurarvi in quelle acque turbolente, ma indossando giubbotto di salvataggio e braccioli. E con un paio d’infradito che vi attendono sul bagnasciuga. Un’introduzione imprescindibile alla fusion, ma anche al genio d’ECM: d’ora in poi fidatevi di questa etichetta e comprate pure senza remore tutta la sua discografia.

6. Horace Silver Quintet
ʻSongs For My Fatherʼ (Blue Note, 1965)
Le stesse cautele valgono quando si entra nel bop e nell’hard bop: se si comincia col disco sbagliato, è finita per sempre. Songs For My Father è diverso: mescolando bop, bossa nova, temi tropicali e dell’est vi farà compagnia per lungo tempo. La classe.

5. Oscar Peterson Trio
ʻWe Get Requestsʼ (Verve, 1964)
Su, avanti, criticatemi pure per questa scelta: ho le spalle larghe. Quello che non state considerando è che si tratta della musica ideale per fare da sottofondo a un cocktail party – ce ne fossero… – o da gustare con chi amate. Voi ridete, lei (o lui) sorriderà. 

4. Count Basie
ʻBasieʼ (Roulette, 1958)
Scegliendo qualcosa di puro Dixieland avrei paura di perdervi per sempre – il direttore di questo settimanale dissente e scuote la testa severamente, ndr –, ma non posso saltare lo ‘swing’ di Basie. Nato William James, il ‘Conte’ è tra i reali del jazz e come tale dev’essere esplorato. Ho scelto Basie – poi rinonimato The Atomic Mr. Basie – per via degli arrangiamenti di Neil Hefti. Quando senti l’impronta di Hefti sui fiati, poi la riconosci subito. Questo disco è un morso che vi lascerà un segno sulla pelle.

3. Cannonball Adderley
ʻSomethin’ Elseʼ (Blue Note, 1958)
Se c’è un pezzo jazz migliore di Autumn Leaves, beh, io non lo conosco. Miles Davis, ‘Palla di cannone’, Art Blakey, Sam Jones, il tutto registrato da Rudy Van Gelder. Monumentale.

2. Joe Pass
ʻVirtuosoʼ (Pablo, 1974)
Anthony Passalacqua l’ho visto al Birdland Theater di New York sul finire degli anni Ottanta. Mi son trovato sul palco quest’uomo minuto, fragile, col tipo di amplificatore che ti aspetteresti da un ragazzino. Pensai subito che avevo buttato nel cesso i miei soldi, di aver fatto una sciocchezza a venire fino a New York apposta per vedere lui. Errore. Per la successiva ora e mezza mi son trovato legato al sedile di un ottovolante jazz. Lo metto nella lista per omaggiare un uomo tormentato che mi ha fatto apprezzare il virtuosismo jazz. Scusa Stephan Grappelli, se avessi lo spazio metterei anche te.

1. Mahavishnu Orchestra
ʻThe Inner Mounting Flameʼ (Columbia, 1971)
Non partite da qui, ma passateci assolutamente. Se state arrivando dal rock, questa è Fusion al suo meglio. Una volta si sarebbe detto: è un ‘trip’. Non si può ascoltare questo album distrattamente, occorre avvicinarlo come una buona cena: vino giusto, luci soffuse, marijuana a portata di mano (light, certo). Liberatevi, e iniziate il viaggio.

PS: Come da ogni lista che si rispetti, sono rimasti fuori dei giganti: Armstrong, Ella, Bill Evans, Chet Baker, Dave Brubeck, Mingus e chissà quanti altri. Ma bisognava fare delle scelte; e se le nostre spingeranno anche un solo appassionato di metal o di new wave a provare il jazz, allora la missione è compiuta. Nel frattempo continuerò la mia crociata per eliminare il Reggaeton dalla faccia della Terra. O almeno da bar, ristoranti e grotti.

 

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