Erminio Ferrari e il valzer per un amico
Pubblichiamo un racconto dall’ultimo libro del giornalista e scrittore morto in montagna mercoledì scorso: una storia di amicizia, cime, musica e tutto il resto
Di Erminio Ferrari
(e.f.)
Erminio Ferrari è morto mercoledì mattina, per colpa di una caduta in montagna. Nell’ultimo paio d’anni ha collaborato spesso con questo settimanale, con racconti e foto inarrivabili: quella che vedete qui sopra era una delle sue preferite. Nella maggior parte dei casi, le sue parole su queste pagine passavano proprio dalla montagna: in sé e per sé, ma soprattutto come occasione per incontrare qualcos’altro che poteva essere un amico, una domanda, un ricordo o la storia stessa, anche se mai con la esse maiuscola (non era tipo da maiuscole, l’Erminio). Per via di “quelle forze del destino che chi conta spingerebbe a rinnegare” – come canta il Guccini amato tanto da lui quanto da noi – l’ultimo pezzo pubblicato due settimane fa cominciava così: “Mi chiamo Gilardi. Di mestiere faccio il cerimoniere al cimitero comunale”. E via a raccontarne la storia, con una lucida gentilezza e una capacità d’immedesimarsi nel prossimo che gli anni in cronaca non sono mai riusciti a indurire. Di montagna, musica e amici perduti parla anche il racconto che vi proponiamo qui sotto, apparso nella sua ultima raccolta (Valzer per un amico, Tararà 2020). Un’ultima cosa, detta con una nudità che ci spiace quasi dover mandare ‘in stampa’, ma è giusto far sapere a chi non lo conosceva: era – resta – così anche di persona. Addio, Erminio.
La Redazione
Valzer per un amico
di Erminio Ferrari
Un valzer è un valzer, non serve dire altro. Un movimento sospeso e la necessità del moto per non cadere. Dico di valzer senza pretese, quello di una bandella che suona È arrivato l’ambasciatore con la piuma sul cappello; o un valzer da concerto di Capodanno viennese, con tutta quella platea di mezzi ricchi, qualcuno dei quali a un certo punto si alzerebbe anche per andare al gabinetto ma non osa perché il vicino sa tenerla e lo guarderebbe male; o meglio ancora il Waltz for Debby, e Bill Evans che lo suona come una suite bachiana; ma anche valzer che se uno non lo sa crede che siano stati sempre dei capolavori e invece se non arrivavano John Coltrane e McCoy Tyner a contrappuntare come nemmeno Johann Sebastian, sarebbero restati per sempre un’insulsa My favourite things.
Valzer che ci si può anche commuovere. Può succedere con De André e la sua voce che canta “quando carica d’anni e di castità, tra i ricordi e le illusioni”; ma anche con Sibelius che sembra essersi ispirato a una ballerina con la caviglia slogata per il suo Valse Triste. Cosicché uno che ascolta seduto da solo al tavolo di un circolo, o appoggiato al bancone per farsi notare di meno, non può che battere il piede a tempo, pur pensando ai mali della vita e guardando con invidia e rimpianto quelli che invece ballano, perché è carnevale e perché a ballare bene, come diceva il Beniamino, u ‘s fa la morosa.
E sì che anche noi ne abbiamo suonati di valzer: bene, male. Più male che bene. Il valzer del zio Piero è forse l’ultimo che ho suonato davvero volentieri, benché col cuore straziato da quelle note che mi riportavano a lontani sorrisi e intimità serene. Lo suonavamo per il Giorgio, ecco perché. Guardo le montagne su cui abbiamo camminato, e anche su quelle lui, il Ielmòn, non c’è più.
Il valzer del zio Piero (del, perché detto in dialetto) si chiamava così per come ce lo aveva fatto ascoltare e poi trascritto l’Aldo, maestro della banda, il quale ricordava di averlo sentito suonare da un Piero, zio materno e modesto clarinettista. Dunque titolo originale e autore ci erano sconosciuti, ma non era un buon motivo per non suonarlo, e in ogni caso conoscerli non avrebbe migliorato le nostre esecuzioni.
D’altra parte è frequente che si intitolino a una persona o a un episodio, un luogo o un brano o un modo di andare che un nome ce l’hanno già. È un’aggiunta di senso, una piega che la vita dà a un corso che parrebbe definitivo. Il Pass del Rivaroli, per dire, è l’espressione venuta al Giorgio un inverno che salivamo una cresta del Limidario. C’erano con me lui, mio figlio Tazio, una neve fatta apposta per sprofondarci e dei salti di roccia che conducevano in alto a forza di fatiche e nuvolette di vapore che fuggivano da bocche smoccolanti. Da quella del Giorgio, precisamente. Il quale solo appoggiandosi sulle ginocchia era riuscito a superare una certa balza. Sospendendo il rosario e senza nemmeno girarsi mi aveva detto: questo l’è ‘l pass del Rivaroli.
Mi ricordo bene il posto, ma lui non intendeva indicarlo come uno Hillary Step sulla via del nostro piccolo Everest. Il Rivaroli, il Berto Rivaroli, era un uomo che noi da ragazzi avevamo conosciuto quando ormai le gambe non le aveva più. Gliene restavano due moncherini infilati in protesi di cuoio che gli consentivano di muoversi come se camminasse in ginocchio. Il Berto aveva perso le gambe rompendosele per una caduta, mentre contrabbandava sigarette su quella stessa montagna di confine. Era successo nel dopoguerra, in pieno inverno, e i suoi soci lo avevano abbandonato nella neve, con le gambe rotte. Il giorno dopo erano saliti a prenderlo, ma ormai le gambe erano andate. Così il Berto aveva dovuto farne a meno per il resto dei suoi giorni. Me lo ricordo che girava per mercati elemosinando su una carrozzella mossa da una manovella. Sparava cazzate, beveva, talvolta disegnava madonne sui marciapiedi, raccontava che una volta al mercato di Luino si era finto cieco e quando aveva preso da terra una moneta che era caduta fuori dal piattino si era giustificato con il benefattore dicendosi cieco-slovacco, e tutti ridevamo anche se ormai l’avevamo già sentita mille volte.
In molte altre occasioni abbiamo dovuto fare ricorso al Pass del Rivaroli, non essendo noi questi grandi alpinisti. E penso che si vedesse. Una volta che andavamo di conserva lungo il tratto roccioso di una cresta dell’Alphubel, ci avevano superato una guida e il suo cliente. La guida si era voltata e ci aveva detto: corda corta. Li avevamo raggiunti in cima e, prima di scendere, la guida aveva indicato il ghiacciaio: corda lunga. Lo sapevamo anche noi, ma, a suo giudizio, non abbastanza.
Di sicuro ci piaceva andare. E anche su quell’Allalinhorn così vicino – montagna da domenica mattina, di guide con grappoli di clienti alla corda e una gran fretta di tornare a casa – saremmo infatti tornati, ma questa volta con quasi tutta la banda. Compresi i vecchi, ai quali non pareva vero di riuscire a suonare così in alto, la prima banda musicale a esibirsi su una cima da quattromila metri. Il Giorgio era salito portando in spalla il basso tuba, lui che suonava il clarino, e che clarino.
Dal suo legno uscivano cascate di note, pulite nei registri alti, belle piene in quelli gravi. E note blu, come nelle prime battute di Marina, che al circolo di Sant’Agata serviva spesso a spalancare i cuori e scaldare le voci. E una sera, in attesa che cominciassero le prove del concerto, l’avevo sentito accennare il largo del concerto di Mozart, che un nostro amico francese gli aveva fatto ascoltare e riascoltare da una cassetta sfibrata. Gli sono arrivato alle spalle e gli ho detto: “Bravo giovanotto. Finalmente sento un bel suono di clarinetto”. Era uno scherzo che andava avanti da quando avevamo visto al cinema Prova d’orchestra di Fellini, ma lui sapeva che dicevo sul serio.
Sull’Allalinhorn, ad ogni modo, tra guide stupefatte e turisti d’alta quota avevamo fatto il nostro numero da cima addomesticata. L’Elido e la Rosanna avevano ballato un valzer, e lo aveva fatto anche una coppia di tedeschi, seppure questi con qualche difficoltà: un po’ per scarso orecchio, un po’ perché non avevano tolto i ramponi.
In quell’aria leggera le nostre note se le prendeva il tempo che di tutto fa giustizia e tutto cancella. Modeste melodie, come le raccomandazioni di poveri amanti, e giuste. Passabilmente giuste.
Perché tra le divisioni possibili, quella in tre quarti è forse la più adatta a inscenare il riso e il pianto; forse per via del terzo movimento che, con una leggera sospensione, fa ricadere il motivo, e la storia, sul battere della battuta successiva. Un tempo di danza (o di una ninnananna) che nella musica popolare veicola spleen e gioie fatue con uguale capacità di arrivare ai cuori di chi balla e di chi suona. Sono nati amori e sono finiti matrimoni ballando un valzer. Anche una divisione in quattro potrebbe; a patto però di essere affetta da un leggero vizio, da una claudicanza che fa di un tango una rumba o, in casi felici, una beguine.
Il tre quarti, però, riesce meglio, anche nel peggior cattivo gusto, o nell’ispirazione di una musica d’autore. Non vi aveva resistito nemmeno Beethoven, che a un certo punto del Gloria della Missa solemnis ha infilato qualche battuta in perfetto un-pap-pa. E me lo vedo l’Altissimo, avvolto nell’incenso di tanta gloria, che l’ascolta e pensa: ma guarda tu, devono ancora nascere Tchaikovski e gli Strauss e questo qui li fa ballare sull’altar maggiore. Se non che poi lo stesso Dio sentì un pianoforte suonare l’opera 111 un secolo in anticipo sul jazz e allora capì che, sì, quel Beethoven arrivava sempre prima di tutti.
Ma ci capiamo ancora di più se pensiamo al brindisi della Traviata, che Verdi sembra aver scritto apposta per lasciar sfogare una banda. Altro che Parigi: in quel valzerone, più del dramma incombente di Violetta, si sente un’improvvisata orchestra paesana che suona sull’aia per la figlia del fattore andata sposa al primogenito di un altro fattore, mentre i due padri osservano i quarti posteriori di contadine danzanti, squadrandole come fossero manze e infatti le chiamano così.
Un valzer da matrimoni, appunto. A quello del Giorgio, verso la fine del pranzo mi era venuto in mano un bombardino e, incautamente, avevo attaccato le note di quel brindisi. Un invitato che si piccava d’essere tenore aveva provato a starmi dietro, ma in quella tonalità non sarebbe mai riuscito nemmeno a immaginarseli i lieti calici che la bellezza infiora, cosicché si era presto riseduto con qualche imbarazzo. Ma subito uno zio della sposa era balzato al centro della sala emettendo suoni indefiniti e saltando su una gamba e sull’altra, un po’ come un Boris Eltsin sbronzo a un comizio elettorale, se avessimo già allora saputo di Eltsin, che in ogni caso era grosso il doppio dello zio.
E a quel punto l’imbarazzato ero io, che non sapevo come finirla, diviso tra gli sguardi di rimprovero della moglie e quel Dioniso fuori epoca e tempo, sfuggito alle sue raccomandazioni. Ho fatto una specie di cadenza e dopo l’ultima nota quel pover’uomo si è trovato come nudo e solo in un deserto di sguardi minerali.
Non avremmo dovuto farlo, né lui né io. Ma la musica fa di queste cose. Guida lo sguardo e il sentimento dove dolori e pudori ed ebbrezze giacciono nudi e guardarli potrebbe costar caro. È infatti su un movimento in tre (quarti o forse ottavi, non so dire) che Leonard Cohen ha scritto dell’illusione di essere liberi come un coro di ubriachi nel mezzo della notte. E anche la nostra banda aveva in repertorio un pezzo che comprendeva un English waltz – questo in tre ottavi – ed era un piacere ascoltare le due trombe soliste scambiarsi le terze di battuta in battuta. A noi pareva una gran novità, anche se poi, scoprimmo, quella musica era soltanto una delle forme che il ballo liscio prende nelle terre dove si parla inglese, e nelle loro osterie amano segnare il battere picchiando con lo stivale su un pavimento di legno. O sul tavolo con un boccale di birra, fino a rovesciare tutto quello che c’è dentro.
Come quando Tom Jones canta Tennessee Waltz e la sua gran voce lamenta il furto della propria donna da parte dell’amico a cui l’aveva presentata. Ratto avvenuto proprio mentre il ladro e la femmina infedele ballavano quella specie di valzer galeotto al rallentatore. E allora penso a quanti vorrebbero affidarsi a quella musica ciondolante per farle dire ciò di cui non sono capaci, per osare o rimpiangere ciò che non hanno mai osato. E mi immagino una tardona che danza abbracciata al ventre prominente di un autista eccitato e commosso, in un autogrill da qualche parte in America, mentre Tom Jones ricorda I was dancing with my darling to the Tennessee Waltz.
E infatti è difficile resistere.
Così, l’alternativa è, era, per noi la montagna. E averne di alternative così. Appesi alla stessa corda o salendo mentre ancora il giorno tardava, la musica era quella di certe confidenze, e solo quelli il luogo e il modo. Sarebbero rimaste custodite lì, e una parte di noi con loro.
Certe montagne, poi, ci ispiravano. Il Giorgio partiva come un treno, e stargli dietro era una scommessa. Parlava, lui mezzofondista, di Juantoreña e sembrava che volesse sfidarlo lì su quel sentiero o su quella pietraia che ci portavano a vedere il mondo da un pulpito di roccia o dall’altra parte di una cresta. In cima alla quale quasi mai ci aspettava el caballo (che avrebbe vinto comunque) ma poteva darsi che ci trovassimo degli svizzerotedeschi ai quali una vecchia consuetudine di sprezzo faceva affiorare alle labbra un macaroni indirizzato a noi. Allora sì che in un groviglio di corde e moschettoni tintinnanti si improvvisava un concerto di lingue mescolate, di suoni e parole dal significato oscuro se non che erano moccoli e insulti. Quelli del Giorgio noi li capivamo, ma, a giudicare dalle facce, anche quei senza creanza ne intuivano il significato.
Poi era bello riderci su. Con tutto che domare il fottone del Giorgio non era un esercizio accessibile a chiunque. Ma la montagna aiutava: quella su cui arrampicarci, ma anche quella da spostar sassi, dirò. Capisco che può sembrare una sciocchezza, o un’attività da forzati ma no, non lo era. Anzi, c’era stato il periodo in cui ci piaceva tornare a casa con una bella pioda raccolta lungo il percorso, così che il Giorgio potesse posarla fuori casa e camminarci sopra ricordando la montagna su cui eravamo stati. Era una fatica in più, ma c’era della nobiltà in quel gesto e forse anche della poesia. E c’era la forza, naturalmente, ché ce ne voleva per trasportare a braccia, a volte trascinare per il bosco, perché proprio di sollevarli non si parlava, parallelepipedi di pietra che sarebbero diventati soglia di camino o architrave d’ingresso, come a casa mia o in quella ristrutturata dall’Angelo. E quello che non mancava al Giorgio erano la forza e il piacere di applicarla a un’opera. Quelle mani che afferravano e gettavano in spalla lo slittone di castagno costruito apposta per trasportare la volta di sasso che mi saluta quando entro in casa, erano le stesse che avrebbero potuto stritolare il legno del clarino da cui invece ’sto demonio tirava fuori un’Italiana in Algeri morbida come le forme di una donna leggermente soprappeso, solo leggermente.
E se c’era una montagna su cui sentirsi un po’ alpinisti, senza esagerare, c’era quella meglio praticata dove contavano più le gambe della tecnica. Al Pizzo del Lago Gelato, lasciando la macchina a Cimalmotto avevo avuto la malaugurata idea di dirgli quale era il tempo di salita indicato dalla guida. Così lui lo aveva dimezzato, e mentre in cima scattavo le mie fotografie, mi diceva: hai visto?
Ma scendendo per un percorso diverso e passati dai corti superiori di Sfille, avevamo trovato l’alpigiano che cercava di mettersi con la radiolina sulle onde della cronaca sportiva di quella giornata. Ed era finita – eravamo arrivati in tempo per sentirlo – che ai mondiali di ciclismo Gianni Bugno era stato battuto da Dhaenens e De Wolf. Il Giorgio un po’ ci era rimasto male, come se con tutto il nostro correre fossimo arrivati fin lì per farci battere da un belga qualsiasi.
Il riscatto l’avevamo avuto qualche ora più tardi quando, appesi alle nostre corde, avevamo recuperato dal torrente un gruppo di canoisti incapaci di uscire dalla forra. Su e giù per la parete, fino a notte fatta, col Giorgio che dava i comandi e io che risalivo con questi qui imbracati e portati in salvo. Che forse non erano neppure belgi.
Oggi guardo la foto di un bivacco alla gengiva del Dente del Gigante (c’era anche il Giuseppe che ci avrebbe guidati l’indomani lungo la Cresta di Rochefort) e mi chiedo che cosa sia il tempo di un valzer, non dico nell’eternità, ma anche solo in quello di una vita. Nella foto il Giorgio ride. Non il riso nei confronti di qualcosa o di qualcuno, ma perché si è vivi, come quando si ride dopo un’ultima nota perché arrivarci senza essersi persi è già stato un viaggio o un racconto. Un’avventura modesta della musica, che dagli inciampi si risolleva e riprende.
Un valzer che avevo sentito per la prima volta in una trascrizione per banda, a Lesa, era quello di Shostakovic, il secondo. L’avevano suonato come gli era venuto, ma insomma. Ero lì con il Daniele accanto, e quando, dopo le poche battute del tema esposto da un solista, è arrivato il tutti, ci siamo guardati senza dire niente e in quello sguardo è apparso tutto quello che avevamo pensato e creduto che fosse non la vita, forse, ma di sicuro la musica. Apparso e subito scomparso: il Daniele non si spreca in parole. Ma certo sapevamo che quel motivo si accordava a un moto ondoso dei sentimenti, il ruotare di gonne un poco sollevate, il movimento incantevole di certe donne non necessariamente così belle, ma che se le prende la musica ti tendono un braccio e con loro attraversi le pianure e i mari e il tempo e i ricordi di ciò che è stato e di tutto quanto deve ancora avvenire.
Solo che allora il Giorgio si era già ammalato. In un modo quasi da non accorgersene, o da scambiare il male per qualcos’altro (benché spesso sia quel qualcos’altro a essere scambiato per male). Avevamo corso insieme una Maratona della Valle Intrasca e non sapevamo che sarebbe stata la sua ultima. Non lo si sa mai, o si finge di sì, liquidando con una battuta ciò che in fondo è un esorcismo. Restava indietro e mai era accaduto né mai mi sarei aspettato.
Allora cercavamo salite domenicali che ingannassero quella sua fatica incomprensibile, ma eravamo noi a sbagliarci.
Sul Pizzo d’Orsalìa, l’Angelo, che di solito non parla ma bastano gli occhi, mi guardava incredulo: era una cresta che il Giorgio, quello che avevamo conosciuto, avrebbe percorso trottando e che ora invece lo abbatteva, lasciandolo confuso a chiederci scusa. Scusa di cosa?
Lo conoscevo bene. Il suo affanno si manifestava in rabbia, dava corso a parole che si inseguivano maledicendo un Dio che non era stato ai patti, o implorandone la clemenza per la nostra viltà.
Poi ci trovavamo e diceva che per lui era finita e finalmente non mi avrebbe più svegliato in piena notte perché c’era qualcuno da andare a cercare. Io lo mandavo a quel paese dandogli del brutto bastardo lazzarone, ricordandogli a quali trattative mi obbligava per convincerlo a partire presto al mattino quando si trattava di salire un monte. Ma sapevamo entrambi che quelle parole erano una ben fragile difesa. E oltretutto sapevamo che anche le parole sarebbero finite, prima o poi.
L’ultima volta che abbiamo percorso insieme un sentiero è stato proprio per una uscita del Soccorso Alpino. Cercavamo un tipo scomparso sulle montagne del nostro paese. Il Giorgio faticava, sacramentava e riprendeva a salire. Io parlavo senza smettere, come se tutte quelle ciarle bastassero a coprire la pesantezza del suo respiro; era un inverno di poca neve, ma neppure il crepitare delle foglie secche sotto i nostri passi vi riusciva. E poi quel disgraziato lo avevamo preso per fame. Si era nascosto in una baita, restandovi finché non aveva finito di saccheggiare le poche scorte che aveva trovato, quindi era venuto allo scoperto, magro come un chiodo, in una nuvola di puzza e frasi disarticolate. Il Giorgio lo aveva preso al volo per un braccio e l’aveva caricato sull’elicottero. Aveva i suoi motivi, quello lì. Fuggiva da un tale con cui era stato in affari strani, e che di lì a un anno ne aveva accoppato uno messo uguale.
Solo che noi eravamo stati in giro per il bosco a cercarlo per quasi un mese, avremmo poi scherzato con il Giorgio, quando ero andato a trovarlo all’ospedale. Gli avevo portato qualche paio di calze di ricambio e un libro di Schopenhauer, senza averlo capito e senza saperne il motivo, se non – me l’aveva rivelato uno sguardo del Giorgio – che era un segno di resa. Quando sento il Valse romantique di De Severac, non è una colazione sull’erba che mi viene in mente, ma un cortile assolato, chiuso da mura che tengono lontana Milano, gente che va e che viene con la macchina dell’ossigeno portata a spalla, parenti in visita, parole dimesse. Magoni.
Era luglio, e non c’era niente che ci facesse credere a quell’estate. Troppo lunga per la sua pena, troppo breve per tutto il resto. Altro che valzer e mica valzer.
E infatti l’autunno ci precipitò addosso. Suonavamo innocentemente male dei motivi per un pubblico di mamme pomeridiane e distratte. Un valzer, un fox. Qualcuna accennava a un passo di danza, tra bambini che reclamavano un dolce e povere brocanterie messe in mostra. Commentavamo l’età e altro di quelle giovani donne nell’opera della vita. Le omaggiavamo provando ancora una volta il valzer del zio Piero, ma loro non potevano saperlo. Non loro, non quel pomeriggio che finiva, non le voci che si perdevano in un campetto dove dei ragazzini inseguivano una palla.
Il Daniele ci teneva insieme suonando su una tastiera di quelle che volendo fanno tutto loro, ma lui di più. Il Ruggero ci dava con la tromba. Il Giorgio suonava seduto, faticava. Ogni nota era un tempo che ritornava, ogni parola la confessione del tempo che scadeva. Ancora una, dicevamo, e lui quasi addentava l’ancia come si morde un’esistenza puttana che ci sta lasciando. O come la si coprirebbe di baci perché non è il suo amore che ci è mancato. Ancora una, Ielmòn, ancora una.