Sam Millar o la minaccia all’Impero
Chi è costui? Il figlio di una famiglia mista di Belfast di fine anni Cinquanta. Che non spiega tutto, ma molto sì. Però non fermatevi alle apparenze…
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Sam Millar è un combattente per la causa irlandese, un eroe, per Dublino. E un terrorista per Londra, che lo imprigionò a Long Kesh insieme al leader nazionalista Bobby Sands. Sam Millar è il mite proprietario di un negozio di fumetti a New York e il feroce ideatore del colpo del secolo alla Brinks di Rochester, nel 1993: il quinto bottino più ricco della storia americana. Un portiere di giorno nell’Upper East Side di Manhattan e un croupier di notte in un casinò illegale gestito dalla mala irlandese. Sam Millar è uno scrittore di noir, ma dove vive lo sanno in pochi, perché a Belfast i suoi libri ufficialmente non esistono, non si possono comprare. Altra polvere infilata sotto all’enorme, arricciato tappeto steso sull’Irlanda del Nord e sui suoi Troubles: i ‘guai’, letteralmente. Come se fossero stati anni di marachelle da bambini e non di morti ammazzati e diritti negati.
Sin dall’infanzia
Chi è Sam Millar? Uno che dice di tenersi lontano da politica e religione. Perfino dal calcio, dove – a certe latitudini – politica e religione rotolano in campo quanto un pallone. Uno capace di dirti, perentorio: “Sono argomenti che hanno diviso il mio Paese e in casa mia non entrano. Se ne vuoi parlare fili dritto al cesso, il posto giusto per certe cose”. Ora non si sa in che stanza stia Sam Millar quando usa Facebook, ma da lì attacca senza troppi giri di parole i lealisti, gli unionisti, insomma quelli che comandano nel suo pezzo infelice d’Irlanda. Attacca la regina, i ministri, i giornali a suo dire compiacenti. Insomma, politica e religione. Sam Millar, su Facebook, tra un insulto e un’invettiva, infila video di gattini e tragicomici “Buongiornissimo”, quelli da boomer sessantenne che come trauma impattante, nella vita, al massimo ha avuto un trasloco. Non anni di galera e battaglie per la libertà. Non un intero pomeriggio passato dentro una canzone prima che diventasse una canzone degli U2: “Sunday Bloody Sunday”, 30 gennaio 1972, giorno in cui l’esercito britannico sparò sulla folla disarmata uccidendo 14 persone.
Per capire una vita impregnata di spirito patriottico sarà il caso di partire dalla sua infanzia irlandese, che fa subito pensare a Frank McCourt, che descriveva la sua così, ne Le ceneri di Angela: “Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora”. Di peggio forse c’è solo un’infanzia irlandese, cattolica e protestante insieme, in un quartiere operaio di Belfast. “Uno di quelli tosti. Ma in cui ci si dava tutti una mano. Mai chiuso a chiave una porta, nessuno rubava a nessuno – dice Millar -. La mia strada si chiamava Lancaster Street, una piccola enclave cattolica circondata da lealisti britannici. Luogo di scontri già negli anni Venti. Per dare un’idea, negli anni Settanta tre quarti degli uomini che vivevano in quella strada furono imprigionati”. A complicare quell’infanzia già non semplice, la presenza del nonno, “uno dei leader orangisti, i paramilitari noti per il loro odio verso i cattolici”. Odio vero. Fatto di intimidazioni, pestaggi e agguati. Quando andava bene.
Maledetta domenica
La svolta è il Bloody Sunday: “Avevo da poco compiuto 15 anni e mio fratello mi chiese se volessi andare a Derry con lui. Non sapevo nemmeno dove fosse. Io all’epoca ero molto più interessato alle ragazze, però sapevo che stavamo andando a una marcia per i diritti civili dei cattolici e dei nazionalisti. All’epoca erano trattati come cittadini di seconda classe, discriminati su tutto. Ero proprio lì quando iniziò il massacro che cambiò per sempre la mia vita. Quel giorno capii che con le marce non avremmo mai ottenuto i nostri diritti. Occorreva muoversi diversamente, fare altro”. Altro cosa? L’Ira, con la I maiuscola: Irish Republican Army. Insomma, i liberatori. O i terroristi. A seconda della faccia della medaglia che si vuole guardare.
“La consapevolezza arrivò dopo l’uccisione di uno dei miei migliori amici, Jim Kerr. Aveva appena 15 anni. Lasciammo la scuola assieme e trovammo entrambi un modo di tirare su due soldi: io in un mattatoio, lavoro che odiavo, essendo amante degli animali, ma che mi dava da vivere. Lui, più fortunato, aveva trovato posto come meccanico”. La fortuna di Jim, però, durò poco. “Fu ucciso, solo perché cattolico, da terroristi britannici che gli spararono sei volte in testa nel garage dove lavorava da appena due giorni”. E così l’ira, minuscola, di Sam, si fece grande. E lui con lei. “Sono stato il primo nazionalista irlandese portato davanti a una corte politica britannica. Mi diedero tre anni. Di solito quando arrivavi lì te la cavavi con una multarella. Il giudice, chiamiamolo così, che lesse la sentenza, mi definì ‘una minaccia per l’Impero’ , descrizione che mi rese orgoglioso”.
L’incontro con Bobby
Ad appena 16 anni, il ragazzino rimasto ai margini della mattanza di Derry non c’è più. Lo aspetta Long Kesh, il carcere che i nazionalisti irlandesi, senza troppi giri di parole, definivano “un campo di concentramento britannico”. “Nel braccio politico della prigione incrociai insegnanti, professori e altra gente di enorme cultura. Grazie a loro imparai più che a scuola. Appena uscito però mi beccai altri dieci anni, questa volta da scontare nei famigerati H-Blocks, dove venivi torturato continuamente fin dal tuo arrivo. Spogliato e picchiato ogni giorno da guardie sadiche. Lì incontrai Bobby Sands, fui il suo vicino di cella per anni. Un uomo straordinario con un coraggio straordinario. Un tipo alla mano, serio, che al momento giusto sapeva anche essere molto divertente. Raccontava storie, organizzava quiz per tenere alto il morale dei ragazzi. Un grande compagno che ha messo sempre il suo popolo prima di se stesso”. Bobby Sands, è bene ricordarlo, aveva appena 27 anni quando morì al 66esimo giorno del celebre “Hunger Strike” del 1981, lo sciopero della fame organizzato dai detenuti dell’Ira e dell’Inla, l’Esercito irlandese per la liberazione nazionale. Quasi quarant’anni dopo, in un’Irlanda del Nord solo apparentemente pacificata, Sam Millar non è contento di come stanno le cose: “Ora sono sposato con figli e mi piacerebbe dire che gli accordi del Venerdì Santo hanno funzionato, che sono stati un grande successo. E invece sono stati un disastro per i cattolici. Gerry Adams ha firmato un pezzo di carta che più o meno giustifica l’occupazione britannica dell’Irlanda. Era il 1998 e a oggi non è cambiato quasi niente. Il Sinn Féin (partito irlandese di matrice cattolica) aiuta i lealisti a fare le leggi pro-Regno Unito e i repubblicani sono ancora vessati e imprigionati senza processo. La chiamano “pre-sentenza”; sempre bravi a distorcere le parole loro! Dico sempre di leggere La fattoria degli animali di Orwell per capire cos’è successo dalla firma di quegli accordi in poi”.
Una storia infinita
Intanto Belfast è ancora divisa dai cosiddetti Muri della Pace, quartieri separati da mattoni, filo spinato e inferriate anti-molotov, gente che si guarda in cagnesco o – nel migliore dei casi – si ignora. I cancelli che separano cattolici e protestanti, aperti di giorno e chiusi di notte, hanno ancora un triste e sbrigativo cerimoniale che ha luogo al tramonto e sancisce ogni giorno quel che la gente di Belfast sa benissimo, al di là dei proclami e della vita da città normale che scorre per il centro cittadino: la ferita non si è mai rimarginata. E non si rimarginerà. Almeno nel breve termine. “C’è qualcuno che riesce a spiegarmi come possono stare nella stessa frase le parole muri e pace? Io, tutto sommato, la capisco la gente che li vuole ancora. È spaventata. E i muri non puoi buttarli giù senza il permesso di chi ci abita. In tutta onestà credo che non saranno abbattuti finché sarò in vita. Ogni tanto tirano giù qualche muretto e i politici si mettono in posa per farsi pubblicità. Ma i muri, finché resteranno, saranno la prova dei fallimenti della politica”. E anche di un immaginario che non corrisponde alla realtà, soprattutto fuori dai confini. “All’estero si ha una visione dell’Irlanda tutta fatta di stereotipi, leprechaun e gente che beve, si abbraccia e si vuole bene. Bene. Sono quasi tutte fesserie. Spesso ci si dimentica che sono racconti sull’Irlanda ideati e prodotti nel Regno Unito. Vi lascio immaginare l’accuratezza storica. Per vedere qualcosa di vicino alla realtà ci sono ottimi documentari, solo che, chissà perché, in televisione non li vedi mai. Te li devi andare a cercare su YouTube. Nei miei libri, per esempio, mostro l’ipocrisia di politici e poliziotti. Senza mettere filtri. E sì, siamo messi male. Ma a quanto pare non siamo soli. Basti pensare a tutti quei leader fascisti come Trump e Bolsonaro in Brasile, o allo stesso Boris Johnson, che usano la paura come strumento per intimorire la gente e mantenere il potere. Chissà, magari a novembre gli americani ce la faranno a cacciare Trump. Sarebbe già qualcosa”.
Il sogno americano
Gli Stati Uniti sono un’altra ferita aperta per Millar, che l’aveva sempre sognata: “Per lo stile di vita, ma soprattutto per la libertà. Solo lì mi sono sentito davvero un uomo libero”. Libero di fare della propria passione un lavoro. E delle proprie manie di grandezza un disastro. Ma andiamo con ordine. “Mio padre, che era un marinaio mercantile, mi portava sempre i fumetti da New York. Me ne innamorai all’istante, con quelle copertine colorate e le immagini dei supereroi. Quando andai a vivere in America a un certo punto riuscii a gestire dei negozi di fumetti proprio a New York”. In mezzo alle fantasie sui fumetti venne quell’idea balorda di un colpo da 7 milioni e mezzo di dollari che coinvolse, oltre a Millar, un prete, un pugile poi scomparso misteriosamente e un poliziotto in pensione che lavorava come guardia giurata. All’epoca Millar si divideva ancora tra un onesto lavoro come portiere in uno stabile di Manhattan e uno molto meno onesto all’interno di un casinò illegale gestito da irlandesi. I vicini di casa vedevano il suo anonimo minivan e non si facevano troppe domande. Proprio con quel minivan riuscirà a portare via un bottino così grosso che, quando la polizia – tempo dopo – trovò due degli oltre sette milioni rubati, si ritrovò a contare il denaro pesandolo, lo stesso metodo usato in Colombia da un uomo sommerso dai soldi: Pablo Escobar. Degli altri cinque e rotti milioni non si è mai più saputo nulla e i protagonisti si sono guardati bene dal dire qualcosa. A incastrare Millar all’epoca fu l’uso continuo di banconote nuove da 20 dollari: quello era il taglio del denaro rubato. E anche la sua maniacale passione per i fumetti: dal nulla iniziò a comprarne di rarissimi a prezzi altissimi, pagando in banconote da 20 e attirando su di lui più di un sospetto. Alla fine Millar pagò con la prigione, e così il prete, padre Moloney, vicino ai nazionalisti irlandesi, ma anche molto amato dai suoi parrocchiani americani, che – in perfetto stile Ira – scrivevano sui muri di liberare il loro pastore. Tutto è raccontato nei dettagli nella sua autobiografia “On the Brinks”. Prigione compresa. Sembra il copione di un film, e infatti lo diventerà presto, visto che una casa di produzione di Hollywood ne ha recentemente acquisito i diritti.
Occhio alle spalle
Dopo le rocambolesche avventure americane, Millar alla fine è tornato a casa, nella sua Belfast, dove – nonostante quel che si potrebbe pensare – non ha problemi a farsi vedere in giro, “anche se devo guardarmi sempre alle spalle”. E allora perché restare? “Perché Belfast è casa mia. C’è la Belfast Central Library, il luogo dove ho scoperto i libri e dove ho iniziato ad amare la letteratura perdendomi dentro alle storie. E poi il John Hewitt Bar, il pub dove vado a bere e dove c’è un mio ritratto appeso sul muro. Infine Cave Hill, la collina dove ambiento i miei libri e dove da ragazzo iniziai a complottare contro l’Impero britannico”.