Il nostro razzismo. Chi ha paura dell’uomo nero?
L’artificioso concetto di razza rimane un segnaposto all’interno di un sistema a forma di piramide fatto di diritti e privilegi politici, economici, giuridici e sociali. Anche in Svizzera.
Di Cristina Pinho
Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
“Il mondo non è bianco e non lo è mai stato; bianco è solo una metafora del potere”. Sono le parole dello scrittore James Baldwin citate nell’intenso documentario I’m not your negro (2017), bussola per risalire alle origini di quanto sta succedendo oltre Atlantico da un paio di mesi a questa parte. Le manifestazioni di protesta seguite all’uccisione di George Floyd, accompagnate dall’eco delle sue ultime parole, hanno coinvolto pure il Ticino, da dove si è alzato un coro di denuncia anche contro un razzismo nostrano. “Il primo nero in Ticino a lavorare in banca sono stato io, e non è stato facile”, ricorda Demba Dieng, originario di una comunità di agricoltori e pastori nomadi del Senegal, terra da cui è partito all’età di 19 anni. “Ho fin da subito avuto diversi problemi causati dai pregiudizi nei miei confronti, ma in tanti mi hanno sostenuto e sono andato avanti”. Dopo una dozzina d’anni nel settore, ha intrapreso una rotta nuova che lo ha portato a diventare insegnante di lingue e cultura generale, e molto preparato su problemi di natura culturale, società e integrazione. Con lui, che di tali questioni continua a occuparsi anche dopo la pensione, affrontiamo alcuni aspetti legati al razzismo alle nostre latitudini.
© Ti-Press
Demba Dieng
Quel ‘ma’ che fa male
“La Svizzera non è un paese razzista – esordisce –. Si tratta di una nazione esemplare, costruita su un’unione di differenze, ricchissima a livello umano e di valori, in cui da anni sono attivi una commissione e un servizio federali, appositi consultori e delegati nominati da ogni cantone che lavorano alla problematica”. Dopo l’elenco virtuoso arriva il ‘ma’. “Ma ci sono persone razziste, a tutti i livelli, in tutti i campi, come nel resto del mondo”. Sul portale della Confederazione, alla voce ‘Servizio per la lotta al razzismo’ viene spiegato che la maggior parte degli episodi registrati in Svizzera non ha motivazioni ideologiche, ma è l’espressione di ignoranza, paure diffuse, pregiudizi e mancanza di empatia. Ciononostante, prosegue il testo, “il primo passo nella lotta alla discriminazione razziale consiste nell’ammettere che questa esiste sul piano strutturale, istituzionale e individuale”. Nei vari ambiti della vita ci sono infatti sistematicamente maggiori barriere che ostacolano la parità degli stranieri (o considerati tali), o ne favoriscono la stigmatizzazione e l’esclusione: oltre che nelle interazioni quotidiane, il razzismo si manifesta nelle istituzioni (polizia, amministrazione, scuola), e in generale è insito nei meccanismi della società (accesso all’alloggio, mondo del lavoro, rappresentazione sui media). Le persone più colpite sono quelle con la pelle scura: dal loro aspetto esteriore vengono tratte conclusioni negative sull’interiorità; si tratta di un tipo di razzismo nel quale è centrale il corpo e che a un’ipervisibilità fisica associa un’invisibilità sociale.
Schiavitù e colonialismo
Questa griglia di lettura dei corpi è un retaggio della schiavitù e del colonialismo, ed è stata talmente interiorizzata da esser divenuta “parte della cultura, perfino quasi del Dna della gente in Occidente” dice Dieng. “L’idea di razza è stata creata per mantenere le gerarchie – afferma Kehinde Andrews, professore di sociologia all’Università di Birmingham –. Le tre grandi rivoluzioni industriale, scientifica e politica non sono l’unica causa del progresso dell’Occidente: questo non sarebbe stato possibile senza il genocidio nelle Americhe, la schiavitù e il colonialismo da parte delle potenze europee”. Dieng è d’accordo: “Nessuno è bianco, nero, giallo o rosso. Ai miei allievi, indossando una camicia bianca, chiedevo: qualcuno di voi è di questo colore? Il razzismo è stato fabbricato per giustificare un unico obiettivo: lo sfruttamento di terre e corpi per arricchirsi, usando quale copertura il pretesto di civilizzare. È una storia terrificante, dei 13 milioni di africani deportati, due non sono nemmeno giunti a destinazione, morti per malattie, gettati in mare, massacrati. Sulle donne poi la violenza sessuale era sistematica”. Una realtà determinata dal desiderio di dominio e possesso, che ha alterato la composizione sociale dei popoli divenuti ‘i dannati della terra’ con l’imposizione di modi di vivere diversi, altre strutture e nuovi capi-padroni.
Formulazioni nuove, vecchi processi
Uscendo di casa la domenica mattina c’è da mettere in conto una serie di avvistamenti. ‘Asilanti con lo smartphone, finti rifugiati, migranti che sbevazzano, integraliste col velo’: li vediamo susseguirsi, nei parchetti e lungo le strade, su quei fogli a titoli cubitali appesi a certe cassette dei giornali. Da quando la maggior parte della società ha iniziato a metabolizzare l’infondatezza della teoria delle razze, il linguaggio ha preso a rispecchiare un atteggiamento differenzialista, che se la prende con culture e religioni estranee alla propria. Non che certe espressioni da bestiario siano sparite, ma in alcuni discorsi politici e mediatici sono state sostituite da altre più velate che in modo strisciante veicolano pur sempre una visione riduttiva e tendenziosa, associando ad esempio ai neri etichette come “fannulloni, mantenuti, spacciatori”. La retorica di base rimane quindi immutata, e continua a criminalizzare i migranti e le minoranze non desiderate strumentalizzando fatti sporadici e facendo appello a una facile emotività.
Padroni a casa di chi?
Lo straniero è ancora il capro espiatorio ideale a cui dare la colpa dei mali del paese. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui è forte la sensazione di incertezza e instabilità, certi ambienti politici fanno leva su un accresciuto bisogno di sicurezza individuando nei confini impermeabili la soluzione, per cui in tutta Europa da anni stanno risorgendo nazionalismi, regionalismi e localismi retti sui cardini dell’esclusione. Muri, insomma, prima di tutto mentali, che delimitano un terreno fertile per discorsi di rigetto ed egemonia. ‘Padroni a casa nostra’ è l’emblematico motto fondato sul timore del forestiero pronto a rubare la ricchezza e a contaminare la cultura e l’identità locali. In realtà siamo noi a perpetrare il saccheggio nelle ‘periferie del mondo’. Tornando al caso dell’Africa, che Dieng conosce bene, sono innumerevoli le materie prime necessarie per nostri prodotti di largo consumo da lì provenienti, “dal caffè al cacao; dall’oro al petrolio greggio (lo scorso anno il 40% di quello svizzero è stato importato da Nigeria e Algeria); dal cotone al cobalto (presente solo in Congo e indispensabile per le batterie dei telefonini)”. Esiste dunque una geografia del potere che struttura le diseguaglianze socioeconomiche sul piano planetario, e le migrazioni sono il suo prodotto: chi può lascia il proprio paese in cerca di condizioni migliori o protezione da governi dispotici, guerre civili e terrorismo spesso frutto di orchestrazioni di potenze straniere. Le nostre.
Per carità
Suona così piuttosto ipocrita la declinazione ‘aiutiamoli a casa loro’. In merito all’aiuto umanitario Dieng afferma: “C’è chi fa veramente tanto e dà sul serio una mano a coloro che soffrono. Ma non è così che si risolvono i problemi. Dei soldi stanziati, spesso sul posto non arriva che una minima parte dato che lungo la catena c’è chi ci guadagna parecchio; ci sono poi le spese, i biglietti, gli alberghi; e localmente altri interlocutori che prendono la loro quota. È una sorta di razzismo mascherato”. Accanto agli atteggiamenti di intolleranza e odio esistono infatti quelli, come il caso appena citato, altrettanto problematici e lesivi della dignità umana, retti su pietismo e infantilizzazione, che riconducono a uno sguardo paternalista, fondato sull’ideologia del salvatore; una carità che rinsalda i rapporti di subordinazione e allontana una reale possibilità di autodeterminazione.
Di cuore e di cervello, non di carta
Un ulteriore esempio svilente è la diffusa ostilità verso i cosiddetti ‘svizzeri di carta’ , con la riluttanza ad accettarne la partecipazione a pieno titolo alla vita sociale. “Cosa viene qui a romperci i ball questo” è la frase che Dieng si è sentito rivolgere alla fine di una conferenza in cui era relatore. “Io vivo in Ticino da 45 anni, ho il passaporto rossocrociato, mi sono formato e ho sempre lavorato qua. Ho la Svizzera nel cuore e nella testa, e l’Africa nel sangue, e non ho intenzione di buttare via nessuna parte. In Senegal diciamo che il cervello e il cuore devono coniugare i loro sforzi per creare qualcosa di positivo per l’umanità. Nei razzisti il cuore e il cervello non si danno abbastanza da fare e lasciano all’occhio l’interpretazione. Come dimostra per molti versi la Svizzera, la diversità, se abbinata armoniosamente, rinforza e arricchisce il paese e chi lo abita”. Sorge infine un quesito: riusciremo come società ad accettare e celebrare la diversità della Svizzera anche nelle sue nuove forme, senza aspettare di farlo guardando dallo specchietto retrovisore?