Storie di vita. La Regina che mi aprì gli occhi

1992, North Carolina. Io lavoravo per una multinazionale della carne, lei venne a lavorare come ricezionista. Ma un brutto giorno…

Di Sandro Bassanini

Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Regina arrivò da noi in un giorno d’estate, con quel caldo che sa fare ad agosto in North Carolina. Era il 1992 e a entrare nelle nostre giornate furono cento e passa chili di allegria afroamericana, un carattere solare e la capacità di far sentire tutti i colleghi soddisfatti della propria vita. Regina era lì per sostituire la ricezionista, a casa in maternità.

All’epoca ero direttore della produzione per una multinazionale della carne quotata in borsa, un’azienda che aveva un chiaro obiettivo: diventare il leader mondiale nella produzione di cibo, un’ambizione che per noi comportava la rinuncia a qualsiasi tempo libero. In quegli anni lavoravamo 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno: nell’allevamento non ci sono pause, nessuno a un certo punto può decidere di andar via e spegnere la luce; gli animali devono pur essere accuditi 24 ore su 24, occorre qualcuno che gli stia sempre dietro. Per dirla con Elwood Blues, eravamo “in missione per conto di Dio”. La missione era quella di rivoluzionare il mondo dell’agricoltura e ci lasciammo tutti prendere la mano, mentre la nostra carriera correva e piovevano i soldi.

Capii che Regina era unica non appena la vidi seduta dietro al bancone: sapeva regnare con la sua calma sul caos che ci circondava, ci tirava su quando eravamo stanchi, ci strappava un sorriso quando ci sentivamo tristi. Ogni mattina, mentre guidavo per andare al lavoro, pensavo a lei e sorridevo all’idea di come mi avrebbe accolto. I suoi saluti iniziavano sempre con una specie di lungo ‘hmmmmm… hmmmmmm’ , seguito dalla parlata della Carolina più rurale. Per dire: mi chiamava ‘Sambo’ , dato che non sapeva pronunciare le erre e quindi ‘Sandro’ sarebbe stato impossibile. Ecco allora frasi come “Sambo! Pamela ti sta cercando, ragazzo. Sei proprio nei guai: è più arrabbiata d’una gallina bagnata”. Alla mia risposta “E dov’è ora?” sapevo già che avrei ricevuto sempre la stessa indicazione, pronunciata puntando la testa verso il nord d’una bussola invisibile: “Yonder!”.

‘Yonder’, che splendida parola. Alla lettera si tradurrebbe “laggiù”, ovvero dappertutto e da nessuna parte. Ancora oggi, se vi fermate in qualche paesello del Sud e chiedete indicazioni, la risposta dell’indigeno – nel caso voi stranieri non gli piacciate – sarà sempre e solo una: “Yonder”. Seguendo il mento di regina me ne andavo a cercare Pamela, la nostra responsabile delle risorse umane, per capire cos’avessi combinato. E qualcosa avevo combinato di sicuro, ma poco importava: Regina mi aveva già messo d’umore giusto, potevo subire con tranquillità la mia dose giornaliera di punizioni aziendali.

I giorni divennero settimane, finché il Presidente della società ci convocò in riunione e tutti iniziammo a tremare. Il Presidente era il classico tipo che gli americani chiamano ‘larger than life’, più grande della vita: instancabile, fumantino, ambizioso. Sapeva fissarti in silenzio per ore, fino a farti crollare come un prigioniero di guerra, pronto a confessare tutti i tuoi errori e i tuoi peccati, a implorare perdono. Mentre noi capi dipartimento, vicepresidenti e direttori ci accalcavamo in silenzio nella sala riunioni, il Presidente incrociò le braccia e iniziò a fissare il responsabile del personale amministrativo. Capimmo subito che Russ era nei guai. Lui inizìo a parlare, ma dopo un paio di sillabe fu il Presidente a interromperlo come un tuono: “VOGLIO SAPERE CHI HA ASSUNTO QUELLA PUTTANA NEGRA!”. 


© Glen Pearcy Collection, American Folklife Center, Library of Congress

Per me fu come se qualcuno avesse chiuso il sipario sugli Stati Uniti, come se l’intera coreografia stesse crollando. Per la prima volta dopo 6 anni in America vidi cose che evidentemente avevo ignorato, o che non ero stato capace di vedere. 

Non ci furono grandi discussioni, quel giorno. Russ provò a spiegare al Presidente che insomma, quello di Regina era un incarico temporaneo, ma lui non volle sentire ragioni: “Sbattila fuori, cazzo”. Il suo interlocutore si alzò, scese alla reception e fece quello che doveva fare, licenziando Regina senza tante cerimonie e costringendola subito a portar via le sue cose. La riunione ricominciò come se non fosse accaduto nulla. Era il 1992, eravamo in una multinazionale, e a decidere era stato niente meno che il suo Presidente.

Sono riuscito a resistere negli Stati Uniti per altri vent’anni, ma sfortunatamente, da allora in poi, mi è toccato viverci con gli occhi spalancati. Ed eccoci qui oggi, con le proteste in strada, la rabbia come un vulcano in eruzione, la guerriglia urbana. Oggi come allora mi tocca sentire quelli che non hanno idea di cosa patiscono le minoranze, che commentano gli eventi come se invece capissero benissimo i loro problemi. O peggio ancora, li accusano di crearne di inutili. Io invece mi stupisco di quanta civiltà ci sia in quelle proteste, nonostante l’oppressione. In passato, le rivoluzioni sono scoppiate per molto meno.

 

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