Un imam, la CIA e la giustizia

Il 17 febbraio 2003 Abu Omar viene rapito a Milano perché sospettato di terrorismo. Un episodio controverso che anche la recente autobiografia di Dick Marty ricorda.

Di Davide Martinoni

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

La recente autobiografia di Dick Marty e un saggio romanzato del giornalista italiano Fabrizio Gatti ci spiegano, da due punti di vista diversi e complementari, il caso più clamoroso di «extraordinary renditions» della CIA, la Central Intelligence Agency americana: quello dell’imam egiziano della moschea di via Quaranta a Milano, Abu Omar, rapito il 17 febbraio del 2003, condotto alla base Nato di Aviano e da lì al Cairo, dove è stato incarcerato e torturato in quanto sospetto terrorista.
Nel volume Una certa idea di giustizia, pubblicato da Casagrande, l’ex procuratore ticinese vi dedica parte del capitolo dedicato a «Le prigioni della CIA e i buchi neri delle democrazie», mentre Gatti, nel romanzo-inchiesta Educazione americana (La nave di Teseo, 2019) ripercorre i singoli momenti di quel rapimento dando la parola a chi materialmente contribuì ad attuarlo: un agente di pubblica sicurezza italiano assoldato alla fine degli anni Novanta dall’Agenzia e mandato a operare sotto copertura in mezzo mondo.

Rolls-Royce contro Vespa

Il racconto incrociato inizia ai primi di novembre del 2005, quando il Washington Post rivela l’esistenza di prigioni segrete della CIA in Europa centrale e orientale. Pochi giorni dopo a Parigi la questione viene affrontata dalla Commissione delle questioni giuridiche e dei diritti dell’uomo all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa; commissione che è appunto presieduta, all’epoca, da Marty. Dalla discussione emerge la necessità di nominare un relatore che verifichi le rivelazioni della stampa americana e che proponga delle risoluzioni da sottoporre all’Assemblea parlamentare. Il compito è delicato, c’è di mezzo la CIA, nessuno se lo vuole assumere. Finirà per accettarlo Marty, presidente della commissione, svizzero (quindi neutrale), e in più ex procuratore.
Il ticinese avvia un lavoro di «intelligence», assolda tre collaboratori di fiducia e – intuizione decisiva – chiede alla Commissione delle questioni giuridiche l’autorizzazione a garantire la completa riservatezza e l’anonimato assoluto agli interlocutori che avrebbero deciso di fornire informazioni sensibili. Parallelamente viene creata una commissione speciale al Parlamento europeo, formata da 46 membri più un segretariato con una dozzina di persone. «Loro erano in Rolls-Royce, noi in Vespa», scrive Marty. Eppure quella Vespa riuscirà a volare, perché «se si rischia l’incriminazione di alto tradimento è meglio confidarsi con un gremio ristretto, piuttosto che con uno allargato». E così è in effetti avvenuto.

Seguire le tracce

Ugualmente decisiva è per Marty l’accessibilità agli atti dell’indagine che l’amico magistrato Armando Spataro sta conducendo a Milano sul direttore del Sismi, generale Nicolò Pollari, e su 26 funzionari della CIA accusati di sequestro di persona proprio in relazione al caso Abu Omar. Il lavoro di Spataro e quello di Marty sono due «puzzle» che si compenetrano. Un tassello fondamentale viene trovato nel computer dell’allora capo sezione della CIA a Milano, Robert Lady, ufficialmente console degli Stati Uniti: il pc, custodito in una villa in Toscana, rivela il percorso di Omar e dei suoi rapitori dal luogo del sequestro alla base di Aviano. E altre scoperte giungono a cascata: un tentativo della CIA di depistare le indagini (vuol far credere che l’imam sia stato visto in Bosnia, dopo la sua scomparsa, con alcuni islamisti); l’intercettazione di una donna che afferma invece di aver riconosciuto Abu Omar il 17 febbraio mentre si dirigeva a piedi alla moschea; la presenza comprovata di una ventina di uomini sul posto e all’ora del rapimento; numeri di cellulare su identità false – alcuni riconducibili a Langley, Virginia, dove ha sede il quartier generale della CIA –; e il legame fra alcuni titolari di carte di credito e un viaggio sulla Milano-Venezia in direzione della base Nato di Aviano.

Operazioni occulte

Cos’era successo quel giorno a Milano, prima del viaggio verso Aviano, lo racconta nel dettaglio l’agente CIA Simone Pace (nome di fantasia) nel singolare romanzo-inchiesta di Gatti. Pace rivela innanzitutto che del piano di sequestro di persona era perfettamente a conoscenza il Sismi, e che la presidenza del Consiglio dei ministri italiano non si era opposta a un’azione diretta dell’Agenzia. L’intenzione era rapire l’imam mentre si dirigeva alla moschea del centro culturale islamico in viale Jenner, dove andava a pregare. L’azione, pianificata con 7 mesi di anticipo ma poi congelata, sembrava essere stata cancellata. Ma era riemersa, per Pace, il 5 febbraio 2003, e avrebbe dovuto svolgersi il 7, dopo un mese di appostamenti e falliti tentativi di rapimento da parte di un’altra squadra di agenti. Al poliziotto era stato affidato il compito di bloccare l’imam lungo il marciapiede.
La CIA si era nel frattempo infiltrata nella moschea sostituendo il Corano con un copia infarcita di tecnologia che permetteva al Consolato americano o a qualsiasi altro ufficio sotto copertura del mondo di ascoltare tutto quanto veniva detto. Però il 7, l’8 e il 9 l’imam non si era fatto vedere. E così il 15. Ma il 17 era successo: Abu Omar era apparso, Pace gli si era parato davanti, un collega americano aveva mostrato una placca della polizia di Stato e Pace aveva chiesto i documenti all’imam invitandolo ad avvicinarsi a un furgone, da cui erano usciti 4 uomini che avevano sollevato il religioso da terra e lo avevano depositato all’interno. Non aveva nemmeno gridato. E tutto era finito. 

Il ruolo della Svizzera

Poi i nodi erano venuti al pettine, si era andati a processo ma il governo italiano aveva fatto valere il segreto di Stato, nel senso che tutte le prove raccolte dagli inquirenti non potevano essere utilizzate durante il dibattimento. La Cassazione aveva rifiutato questa teoria, ma la Corte costituzionale l’aveva riabilitata. Spiega Marty nel suo libro che i governi Prodi, Letta, Berlusconi e Monti avevano fatto di tutto – invocando sempre il segreto di Stato – per intralciare l’azione della giustizia, il cui Ministero si era sempre rifiutato di inoltrare agli Stati Uniti le richieste di assistenza giudiziaria di Spataro. L’ultimo rapporto consegnato da Marty all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa riguardava proprio l’abuso del segreto di Stato da parte dei governi: i deputati europei, a larga maggioranza, avevano così approvato una risoluzione che richiamava all’ordine gli Stati membri.
Nel corso delle indagini della commissione Marty, era emerso che gli Usa avevano stretto una serie di accordi segreti non solo con i membri della Nato, ma anche con alcuni Stati esterni all’Alleanza atlantica in predicato di entrarci, nonché con vari membri del Partenariato per la pace. L’obiettivo era che la CIA si assumesse la direzione delle operazioni antiterrorismo, aiutata se del caso dai Servizi segreti militari dei vari Paesi, usufruendo di una totale immunità. 
Non è mai stato chiarito se anche la Svizzera avesse sottoscritto quell’accordo. Ma si sono sapute due cose: le autorità svizzere avrebbero deliberatamente omesso di eseguire un ordine internazionale di arresto emesso dalla Procura italiana per Robert Lady, il console americano e responsabile CIA a Milano, che aveva tranquillamente potuto soggiornare a Ginevra; inoltre, è stato scoperto che a fronte all’ammissione che tre aerei del governo americano con privilegi speciali erano atterrati a Ginevra nel periodo in questione, in realtà gli atterraggi erano stati una quarantina.

DICK MARTY – L’intervista: “La strada da percorrere è ancora lunga”

Quali sensazioni le rimangono di quell’esperienza di relatore del Rapporto sulle carceri della CIA in Europa?
«All’inizio avevo quasi l’impressione di far parte di una manipolazione che avrebbe portato a dire che il Consiglio d’Europa aveva indagato ma, pur avendo scelto un relatore con tutte le carte in regola, non aveva trovato niente. Quindi, la ‘verità’ sarebbe stata che niente era successo. Era proprio stato il timore di diventare uno strumento che mi aveva decuplicato le energie. A ciò si era aggiunta un po’ di fortuna – arrivata o cercata – ed è infine emerso quel che sappiamo. Ma a scandalizzarmi non era stato tanto l’atteggiamento degli americani – nche perché in effetti sono sempre stati coerenti rispetto al loro agire –, quanto quello degli europei, che hanno dimostrato un’ipocrisia incredibile. Si fanno tanti bei discorsi sui diritti dell’uomo e poi si compiono azioni totalmente illegali, sia rispetto al diritto internazionale sia alle leggi interne dei rispettivi Stati».

Ma molti in effetti non sapevano…
«Vero, ma lo è altrettanto che quando invece tutti hanno saputo, i governi, senza eccezioni, hanno moltiplicato gli sforzi affinché la verità non venisse a galla. La battaglia giuridica che è stata avviata in Italia è significativa. Anche se d’altro canto proprio l’Italia, grazie a Spataro e a un Ministero pubblico fondamentalmente indipendente, è il Paese che è andato più in là nella ricerca della verità».

Ha l’impressione che da allora qualcosa sia cambiato nella trasparenza e nella consapevolezza in Europa?
«Rispondo rilevando che il risultato per me più importante sono state le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu, ndr), l’unica istituzione che ha decisamente condannato tutti quei fatti. Mi aveva sentito come testimone esperto e si era poi basata sul nostro lavoro per condannare Italia, Romania, Polonia, Lituania e Macedonia. Mi si dirà: è simbolico. Eppure la Cedu si dimostra l’ultimo vero baluardo delle nostre libertà e dei nostri diritti. Mi piace interpretarlo come un segnale inviato ai governi per renderli attenti che c’è sempre qualcuno che li guarda e che è in grado di penetrare i loro segreti».

È d’altro canto significativo che debba arrivare una Cedu a togliere le castagne dal fuoco…
«Indubbiamente. E questo ci dice che la strada da percorrere è ancora lunga. Ciò è confermato dalla reazione piuttosto deludente della politica in Europa. Non posso dimenticare che all’inizio del mio lavoro percepivo chiaramente un’ostilità diffusa. Molti colleghi mi guardavano con un’espressione che diceva tutto sulle loro aspettative riguardo a un mio fallimento».

Chiudendo il cerchio, dobbiamo arrenderci alla prospettiva che gli Stati Uniti continueranno a essere gli arbitri del mondo, costi quel che costi?
«Le rispondo riflettendo su ciò che sta succedendo nell’ambito finanziario. Il Credit Suisse rifiuta di operare dei versamenti non solo verso Cuba – cosa che fanno purtroppo tutte le banche, in modo secondo me illegale, visto che l’isola non è soggetta ad alcuna sanzione internazionale –, ma si oppone persino a girare la tassa per l’Associazione Svizzera Cuba se un suo cliente ne fa richiesta. Parliamo di un’associazione con sede in Svizzera, un conto in Svizzera e di riconosciuto interesse pubblico. Questo esempio dice tutto. È chiaro che si può facilmente cadere nell’anti-americanismo, ma le faccio un altro esempio: provi a immaginare se invece del generale iraniano a Baghdad fosse stato assassinato un generale americano suo parigrado. Come avrebbe reagito l’Occidente?».

 

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