Quelli di qua e quelli di là

Ai funerali è certo meglio andarci da vivi. Un gesto scaramantico, dove astio e amicizia vera si fondono nel grande rito dei ricordi.

Di Giancarlo Fornasier

«È l’una cosa certa, la morte», qualcuno sussurra mentre il corpo del povero congiunto se ne sta lì. Steso e dormiente, preparato per essere visto e «ricordato» anche da chi nemmeno più aveva memoria della sua esistenza, di cosa facesse in vita, dove abitasse e quali disgrazie potessero averlo colpito negli ultimi trent’anni. Erano molti, anche troppi, che a contarli ci si perdeva già alla terza fila di banchi. Luigi c’ha provato un paio di volte a voltarsi, gettando occhiate furtive per ricucire le storie di quelle facce «già viste, ma chissà dove».
Alcuni sguardi erano sin troppo familiari: ecco «a ore 10» l’eterno nemico della siepe troppo alta oggi, troppo bassa domani; tre passi più a destra l’ultimo datore di lavoro, che chiedeva e chiedeva, sapendo che il babbo non sapeva dire di no; stranamente in prima fila la Franca, donna esuberante che gli offriva un aperitivo la domenica mattina dopo la Messa (certa com’era che il babbo non si sarebbe fermato al primo bicchierino). Poco dietro i visi molto invecchiati di un paio di colleghi di lavoro. E poi il sempre presente Gigi, per una volta senza l’amata bicicletta.
«Non fiori ma opere di bene» era stato scritto nell’annuncio funebre; Luigi avrebbe preferito evitare anche il carosello dell’ultimo saluto, ma la forma privata in famiglia era parsa un po’ troppo per un cittadino senza infamia e senza lode, che della politica non si fidava e che nella vita aveva solo lavorato e lavorato. «È giusto che le persone sappiamo che tuo padre non c’è più»: così aveva deciso la zia Roberta. E ora che tutti lo sanno sono venuti a trovarlo, da morto. Poi ci penserà lui a «farsi vivo».

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