Il corpo è un tempio. Il tuo

Una passeggiata che dà adito a una riflessione su sfera personale, libertà e consenso… perché dai bambini c’è sempre da imparare

Di Giovanni Luise

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Un papà a passeggio con sua figlia, poi un incontro che apre a una riflessione su cosa sia la sfera personale (da non invadere), le libertà, a volte inopportune, che ci si prende e sul consenso, che a volte si dà per scontato. E su quanto abbiamo da imparare dai bambini… che poi sono il riflesso di un’educazione familiare e di contesto.

L’altro giorno stavo passeggiando con mia figlia di cinque anni quando un signore di mezz’età si è avvicinato e ha accarezzato i capelli della piccola Sophie includendo il classico “ma che bella questa bambina!”. Ho subito sorriso. Lei, no.

Miope arretratezza

Ha invece alzato lo sguardo e, con tono educato ma deciso, al gentile passante ha risposto: “Lo sai che me lo devi prima chiedere se vuoi toccarmi, visto che il corpo è mio?”.

Io e l’attonito uomo ci siamo scambiati un lungo e silenzioso sguardo intrinseco della nostra miope arretratezza; è come se in quell’attimo avessimo preso consapevolezza per la prima volta del peso di quella affermazione capace di farci vergognare per la brutale verità di una frase elementare pronunciata da chi deve ancora cominciarla, la scuola elementare.

Sono sicuro che non ci fosse nessuna malizia in quello spontaneo gesto, ma quella seppur amorevole carezza era stata fatta senza chiedere il permesso di poterla fare, calpestando così quel valore che la parte “sana” della nostra società si sforza ormai da tempo di promuovere: il rispetto della dignità dell’altra persona. Perché, che si tratti di un contatto, di un gesto o di un commento rivolto a una bambina di cinque anni, a una signora di cinquanta o a una venticinquenne che cammina per strada, il principio rimane invariato ed è sconcertante nella sua basilarità: non si può invadere lo spazio, la libertà e il corpo di una persona senza il suo consenso.

Questione di consenso

La formazione del consenso, prima vera arma per l’evoluzione dei rapporti interpersonali, è indubbiamente influenzata dal contesto culturale e sociale di riferimento. Il disequilibrio di potere tra uomini e donne, la pressione a doversi conformare alle norme di genere, la fatica nel rendere concrete le cosiddette pari opportunità, la tendenza di molti individui ad oggettificare sessualmente il corpo altrui mediante sguardi invadenti e prolungati, rappresentano tutti fattori che ci allontanano dalla definizione corretta di consenso.


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C di consenso

“Con-senso”. Il termine indica non solo un permesso che si può dare o ricevere in maniera libera e cosciente, ma sta a indicare anche che un atto va compiuto con logica e razionalità; l’azione deve essere finalizzata con il primo scopo di non creare turbamenti nell’altrui individualità. Il paradosso è che si tratta di un concetto in cui ci imbattiamo spesso e che concediamo quotidianamente lasciando l’autorizzazione al trattamento dei nostri dati sul web, spuntando la casella per la condivisione delle informazioni personali sopra l’ennesimo modulo di turno, senza considerare il mondo social in cui, francamente, nemmeno ricordo bene a chi e a che cosa ho concesso il mio implicito benestare. A rallentare la formazione di una nuova cultura basata sul consenso contribuiscono in modo importante i cosiddetti stereotipi che ci condizionano perché influenzano la società, le persone che ci circondano e di conseguenza molte delle nostre scelte portandoci a utilizzare concetti “preconfezionati” che prendiamo come dei dogmi assoluti perché, a voler essere onesti, ci fa comodo avere una rappresentazione semplificata della realtà.

E così tutti gli italiani amano pasta e pizza, gli inglesi bevono il tè alle cinque, puntuale come gli svizzeri non esiste nessuno e poi si sa che le bionde sono meno intelligenti delle more! Ricordati che se piangi sei una femminuccia e che se una femmina picchia è un maschiaccio e infine, dai, cosa vuoi che sia una carezza a un bambino? Tanto i bambini non hanno ancora il diritto di dire “no”.

Dobbiamo impegnarci il più possibile nel riformulare il linguaggio con cui chiamiamo le relazioni perché non esistono prede, non ci sono cacciatori e non stiamo facendo nessun abbordaggio; la vita non è un campo di battaglia, non è una sfida e non c’è nessun premio da conquistare e comunque se anche ci fosse non sarebbe certo lecito ottenerlo attraverso il mancato rispetto dell’altro. È tempo di riscrivere un linguaggio emotivo comune e libero in cui la mascolinità tossica e il concetto di passività femminile siano solo un lontano ricordo di un superato retaggio sociale.

Stiamo facendo enormi passi avanti nel cercare di insegnare ai bambini a come processare le emozioni e a come comunicare i propri desideri senza vergogna e senza tabù. Stiamo insegnando loro a smettere di giustificare ciò che non è giustificabile. Ricordiamoci il nostro ruolo di insegnanti in questo nuovo percorso al consenso.

“Amore, chi ti ha insegnato questa bellissima cosa che hai detto?” , ho chiesto a Sophie appena il passante si è allontanato. “L’asilo. E mi ha detto anche che il corpo è un tempio. Il mio”.

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