Bombe e margherite

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Di laRegione

Un prato rigoglioso, sovrastato da quel cielo infinito che solo l’America pare avere. L’obiettivo si avvicina a una bambina biancovestita, rivela una spolverata di lentiggini sul naso all’insù. La bimba ha una margherita in mano, strappa i petali uno per uno, accompagnando il gesto con tono allegro. One, two, three, four, five… Cade l’ultimo petalo e una voce fuoricampo, maschile e metallica, invade le orecchie. I numeri si ribaltano in un conto alla rovescia: Ten, nine, eight… La bambina alza lo sguardo, congelato in un fermo immagine.
La macabra conta continua, l’inquadratura si stringe sull’occhio della piccola. Zero! Nella pupilla si riflette l’esplosione di un fungo atomico. These are the stakes… «Questi sono i rischi…» ci informa il presidente Lyndon B. Johnson, strascicando le esse in una rassicurante pronuncia texana. E conclude con quelli che sembrano i versi di un salmo: We must either love each other, or we must die: dobbiamo amarci o morire. È il famoso Daisy Ad che nel 1964 sostenne la rielezione di LBJ, ed è la più concisa rappresentazione di un progresso a doppio taglio, che rischia di autoannullarsi con «l’arma-fine-di-mondo». Non potevano immaginare quello sguardo, quella bambina, gli scienziati che imbottigliarono il loro genio dentro all’ordigno nucleare. Né potevano immaginarsi le paure e le ossessioni che ancora ci accompagnano, come raccontiamo in questo numero. Nel frattempo, per fortuna, abbiamo perfino imparato a riderne (grazie, Mister Kubrick). Perché come diceva Marcel Pagnol «bisogna stare attenti agli ingegneri. Cominciano con le macchine da cucire e finiscono con la bomba atomica».

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