La linea dello scarabocchio: la letteratura disegnata

Brevi note sulla storia del fumetto in compagnia di una particolare famiglia di autori: quelli che hanno fatto del disegno “fatto male” un atto artistico

Di Sara Groisman

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

All’inizio c’è la linea. Dalla linea nasce il disegno; dai disegni in sequenza, il fumetto. È vero, oggi esistono fumetti dove le immagini non sono modellate dalla linea ma dal colore; alle origini di questa forma artistica, però, le tecniche tipografiche non permettevano di riprodurli; di conseguenza, per un’arte dipendente dalla stampa come il fumetto, la linea era ineludibile – un retaggio che continua a influenzare gli autori contemporanei.

Ogni fumettista, naturalmente, declina la linea a modo suo. C’è la famosa “linea chiara” teorizzata da Hergé, l’autore di Tintin: un tratto di spessore uniforme, senza ombreggiature, nitido e armonico. C’è la linea rampante del fumetto popolare (come Tex), che lavora su ombre e tratteggio in un’imitazione della fotografia. E c’è la linea imprecisa e pasticciata dello scarabocchio. “Il fascino [di questi disegni] risiede proprio nella spontaneità […], nella libertà espressiva del tratto, in una sorta di folle negligenza e d’imprecisioni comiche”, scrisse Rodolphe Töpffer (1799-1846), colui che, secondo una fazione di studiosi, pubblicando l’album Histoire de Mr. Jabot (1833) creò il fumetto (il che ne farebbe, diciamolo, l’unico svizzero di cui si ha notizia che abbia mai inventato un’arte).

Fuori dagli schemi

Siamo nel primo Ottocento. La grande macchina della rivoluzione industriale procede a tutto vapore: i mezzi di trasporto sono sempre più rapidi e nelle fabbriche nasce la produzione di massa. Nell’arte europea, per la prima volta da secoli si crea una frattura tra uno stile dominante, insegnato nelle accademie, e la ricerca di nuove forme espressive, ispirate alla cosiddetta “arte primitiva” (concetto in cui si accatastavano tante forme considerate minori come l’arte medievale, extraeuropea e i disegni dei bambini). Töpffer, spiega lo studioso Thierry Smolderen in Le origini del fumetto (NPE), reagisce a questo contesto: con una libertà tipica di un’epoca di rottura fonde una congerie di forme che combinano immagine e parola, disegno e narrazione (i cicli di incisioni di Hogarth, romanzi in cui irrompono elementi grafici come il Tristram Shandy di Sterne, vignette e caricature comiche…) e li filtra con un tratto che ha la spontaneità del disegno infantile. Ne nasce un nuovo linguaggio con cui raccontare storie che parodiano i ritmi frenetici dell’età industriale: in esse tipi umani come l’arrampicatore sociale o l’innamorato stucchevole corrono freneticamente all’inseguimento del proprio oggetto del desiderio, in un moto incessante e ridicolo che trova perfetta espressione nella forma degli album, lunga e stretta come un treno e scandita da finestrini-vignetta accompagnati da sibilline didascalie. E anche il tratto di Efferente corre, libero da briglie: anarchico e sgangherato, spontaneo e irriverente (caratteristiche che si innervano in personaggi, scenari, contorni delle vignette e grafia delle didascalie), rappresenta nella sua irriducibile singolarità una protesta contro le tecniche standardizzanti imposte ai disegnatori che lavoravano per i giornali “di massa”, con le loro figure “fredde e impersonali” (dice Efferente) create con i “terrificanti processi della carta da ricalco”.


Nella foga della corsa Monsieur Vieux Bois resta incastrato in un covone. Le «storie in stampe» di Töpffer possono essere lette online nella versione originale; in italiano è attualmente disponibile “La storia del Signor Jabot” (edito da Töpffer).

Poetica dello scarabocchio

Facciamo un salto. Quasi duecento anni dopo, i fumettisti che fanno propria una “poetica dello scarabocchio” rappresentano una falange apprezzata nel campo del fumetto d’autore. Si potrebbe ipotizzare che, se per Töpffer “scarabocchiare” significava resistere alla standardizzazione del tratto, per i suoi successori ciò rappresenti una reazione ai nuovi strumenti di disegno digitali, che permettono di levigare la tavola cancellando ogni sbavatura rivelatrice della mano dell’artista. In questo senso, lo scarabocchio è, come notava già Töpffer, un garante di individualità: nei tremolii, nelle esitazioni e nei moti spontanei il tono di un autore si rivela. E qui sta forse un motivo per cui lo scarabocchio ha trovato una nuova vitalità proprio negli anni Duemila, un periodo in cui le arti si sono fatte particolarmente attente alle esperienze individuali, (auto)biografiche. In Italia, poi, la diffusione di opere dominate dalla “poetica dello scarabocchio” è stata aiutata, sempre dal 2000, dalla creazione di nuovi spazi dove presentare fumetti dal taglio personale e sperimentale: se per decenni la scena era stata dominata dai grandi marchi “da edicola” (Bonelli), col nuovo millennio iniziano a nascere case editrici attente al fumetto d’autore (Coconino, Bao, Canicola…), di cui vanno a cercare nuovi esponenti sul territorio e in rete (dove si è fatto conoscere, per esempio, Zerocalcare). Di fronte a questa apertura, la “linea dello scarabocchio” si è dispiegata: sono nate pagine intitolate Gli scarabocchi di Maicol & Mirco, pseudonimi come Fumettibrutti, titoli come LMVDM. La mia vita disegnata male di Gipi, un manifesto di questa poetica. Ad accomunare tali esperienze, un fatto: tra gli “scarabocchiatori”, spesso viene a cadere la divisione tradizionale tra sceneggiatore e disegnatore: le due figure si sovrappongono. Forse non si può scarabocchiare una storia pensata da qualcun altro.

Lina Ehrentraut – Io e Melek (traduzione di Valeria Beggiato; Canicola, 2022)
In questo volume la tedesca Lina Ehrentraut declina lo scarabocchio con un approccio simile a quello della sua coetanea Zuzu: anche qui irrompe un fantastico per niente fantastico, e anche qui c’è un rapporto forte con la corporeità. Nici è una scienziata che crea una macchina per viaggiare in altre dimensioni: la sua “navicella” è un corpo artificiale, Melek, in cui trasferisce la propria coscienza. Giunta in un mondo parallelo, la scienziata ritrova la sua solita città, il suo solito locale e… una Nici tutta diversa, di cui s’innamora. Percorrendo le tappe della relazione tra le due Nici, Ehrentraut lascia ambiguo come interpretarla: si sta prendendo gioco del dogma contemporaneo “ama te stesso” o lo sta abbracciando fino alle estreme conseguenze? Certo è (l’ha dichiarato più volte) che intende raccontare l’amore e la sessualità lesbica, ancora poco rappresentati. Per dar loro forma, alterna tavole variopinte che esprimono l’estasi alle vignette della narrazione principale, definite da una linea nera che irrompe in improvvisi zigzag, naïf e vigorosa insieme, ironica nel suo ridurre a scarabocchio gli aspetti fantascientifici e perentoria nella sua nitidezza; è una linea che non lascia spazio a chiaroscuri e impone all’autrice di essere sempre esplicita, nelle scene di sesso e non solo. Così lo scarabocchio – per definizione contrario a ogni norma – diventa strumento per esprimere un vissuto ancora considerato “fuori norma”.


La linea spezzettata ed espressiva di Lina Ehrentraut in “Io e Melek”.

Gipi – LMVDM. La mia vita disegnata male (Coconino Press, 2008)
Gipi racconta una vita (la sua?) in prima persona, sprofondando nelle spire della memoria e ripercorrendo i traumi che l’hanno segnata. Intrecciandosi ai testi in un crescendo di espressività vertiginoso, il tratto diventa parte attiva del racconto, traccia immediata e diretta dell’ansia del protagonista, delle sue paure, del suo sguardo insieme sarcastico e candido sulle cose. Alle pagine “scarabocchiate” della (presunta) autobiografia, Gipi oppone tavole ad acquarello dove emerge un mondo di sogno, anche questo spietato ma innervato di bellezza e speranza.


Acquarelli e “scarabocchi” si alternano nella stessa tavola di “LMVDM” di Gipi (p. 36).

Zuzu – Giorni felici (Coconino Press, 2008)
Dichiaratamente debitrice a LMVDM è Zuzu, giovane fumettista che ha esordito nel 2019, sotto la supervisione di Gipi, con Cheese. Nel suo secondo libro, il recente Giorni felici, modula con un disegno “da bambini” il tagliente percorso della sua protagonista: Claudia è un’attrice che non riesce a fare i conti con la sua doppia anima: quando si emoziona si trasforma in sfinge. Abbozzata dalle matite e i pastelli di Zuzu, che calano in un immaginario infantile, quasi fiabesco, la metamorfosi (unico elemento fantastico in una trama altrimenti vicina al quotidiano) ci appare del tutto naturale, una limpida immagine di quegli aspetti di noi stessi che teniamo nascosti finché non prendono il sopravvento. Diversamente da LMVDM dove il tratto abbozzato era diretta espressione delle fragilità del protagonista, in Giorni felici la presenza forte della mano di Zuzu (evidente nel tratteggio delle superfici colorate) non rimanda tanto alla dimensione psicologica quanto a quella fisica: in primo piano c’è un corpo – il corpo dell’autrice che disegna, ma anche il corpo della sua protagonista, il corpo che Claudia non riesce ad accettare.


I pastelli e le matite di “Giorni felici” di Zuzu portano in primo piano la mano dell’autrice (p. 189).

Zerocalcare in mostra a Milano
Nel 2012, in molti avevamo preso l’abitudine di svegliarci il lunedì mattina e, per prima cosa, connetterci a internet, per iniziare la settimana leggendo il nuovo episodio apparso nottetempo su zerocalcare.it. A dieci anni, una quindicina di libri, qualche serie animata e una miriade di locandine da allora, la Fabbrica del Vapore di Milano dedica fino al 23 aprile a Zerocalcare (Michele Rech) Dopo il botto, una mostra imponente che si presenta come la consacrazione di un fumettista emerso dalla scena underground dei centri sociali e oggi seguito da un pubblico vastissimo. Come si possa far convivere la militanza in gruppi di sinistra minoritari e il successo commerciale è una delle domande che accompagna il percorso espositivo – e la risposta di Rech è: cercando di mantenersi coerente con le proprie convinzioni e continuando a fare ciò che si faceva prima del “botto”. Così, come sottolinea la lunga e avvincente cronologia che apre la mostra, Rech non ha mai smesso di prendere posizione, con ironia e acutezza, su ciò che gli accade intorno, che si tratti della sua vita quotidiana di giovane (ora non più giovanissimo) della periferia romana, circondato da coetanei che navigano tra precariato e incertezze, o dei fatti d’attualità (negli anni ha raccontato il G8, la resistenza curda, la pandemia). Per presentare questo percorso, alla Fabbrica Rech raccoglie, con la generosità che lo contraddistingue (sono famose le sue maratone di dediche disegnate che si protraggono per notti intere), centinaia di opere e oggetti (libri, bozzetti, tavole, locandine, magliette, pupazzetti…), proietta i suoi cartoni e allestisce una scenografia spaesante che inscena la città della quarantena. Sono lavori eterogenei ma accomunati da un segno molto riconoscibile che lo ascrive senza margine di dubbio nella “linea dello scarabocchio” (ma lui preferisce “disegnetto”): si è definito “quello che ha venduto un sacco di fumetti […] senza avere nemmeno una vaga idea di cosa fosse l’anatomia”. Lo “scarabocchiare” di Zerocalcare ha però una valenza diversa rispetto a quello di Gipi in LMVDM (opera che pure ama): è sì un tratto profondamente personale che ben si presta a dare forma alla dimensione autobiografica dei suoi lavori, ma è soprattutto la scelta di campo di un punk convinto per il quale il mondo non può che essere raccontato con un segno sporco e anarchico. Dopo il botto si chiude con una frase scribacchiata sul muro: “Questa mostra esiste grazie a chi l’ha curata, montata, installata, imbullonata e a chi ha animato le esperienze collettive che io ho potuto disegnare. Fuori dalla collettività c’è solo la mitomania”.


Zerocalcare – Cover “La profezia dell’armadillo” (Artist Edition, 2017) Libro ed. Bao Publishing, Milano (Courtesy Zerocalcare).


Zerocalcare – “Regeni senza” (2017). Disegno di copertina per il numero di Internazionale del 25-31 agosto 2017 sul caso Giulio Regeni (Courtesy Zerocalcare).


Zerocalcare – “Decoro, Decoro, Decoro” (2015). Finta rivista free press distribuita nelle metro A e B della capitale per lanciare la campagna “Roma Comune” (Courtesy Zerocalcare).

Articoli simili