I veneziani sono il vero miracolo
Cos’è diventata la Serenissima e cosa ne sarà? Chiedilo a loro, che qui ci vivono. Tra navi troppo grandi e invasioni barbariche
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Renzo, architetto, ha una cadenza veneziana che non finisce più: «Ieri un turista mi ha chiesto dove poteva trovare un’osteria tipica a Venezia. Io gli ho detto: vai di qua, passi sopra quel ponte, poi prendi la calle a destra, fai ancora un ponte e una calle, giri a sinistra e prosegui tutto dritto fino in stazione. Lì prendi il treno e scendi a Padova».
Incontri Renzo ogni sabato al Mercato; beve molte, molte «ombre» di vino bianco al giorno, però i suoi restauri di palazzi antichi sono magnifici. Mario è suo amico, condivide lo studio con lui, ognuno ha un’ampia stanza che si affaccia sul Canal Grande e sul caos di Riva del Vin. Mario abita a Venezia da cinquant’anni; viene dagli Abruzzi e organizza mostre d’arte contemporanea. Anche lui al sabato va al Mercato, poi prende l’aperitivo con Renzo, Tullio, gli amici che passano. Prima di cena beve il suo bianchino nel bar sotto casa. Ci sono i soliti avventori, ma c’è sempre anche qualcun altro, di passaggio: Gloria che crea gioielli e li vende in una boutique vicino a San Marco, Timothy che scrive guide gastronomiche e gira il mondo; Choni e Arturo che vengono dai Paesi Baschi ma qualche mese l’anno lo passano nel loro pied-à-terre veneziano dietro Campo Santi Apostoli.
Il teorico dell’immobilità
Non ne può più di quanta gente sbarca ogni giorno sull’isola. Da anni pensa che il limite sia stato raggiunto, superato, schiacciato come le zolle di terra che sorreggono Venezia. Ogni giorno arrivano in media 77mila turisti, molti dei quali non si fermano a dormire. Tra chi pernotta però sempre più persone affittano un appartamento e così sempre meno appartamenti sono disponibili ai veneziani. «Qui vedi il peggio della gente», sostiene Mario. «Cosa vengono a fare? Vengono per farsi un selfie davanti alle chiese, ai monumenti, ai canali. Non guardano, filmano. Si ammassano nei vaporetti, si fermano a mangiare nel primo posto che trovano, non cercano. Non gustano. Vengono per dire: sono stato a Venezia». La città è cosparsa da cartelli «Enjoy & Respect Venice». Ce n’è bisogno.
Un capitano di vaporetto deve avere i nervi saldi. I turisti non sanno dove andare, hanno valigie grandi come panchine e si fermano bloccando il passaggio. Alcune settimane fa un padre ha buttato suo figlio sul vaporetto facendogli scavalcare il parapetto, per accaparrarsi un posto davanti. Il capitano ha tuonato: «NO! Tu adesso torni fuori, prendi il bambino! Cosa pensi, che siamo al parco delle giostre?». Il padre si è fatto sgridare in silenzio ma era chiaro che sì, pensava di essere al parco delle giostre.
Mario non viaggia quasi mai. Torna in Abruzzo due volte l’anno e talvolta va a Palermo, da un amico. «Mi siedo in un bar, per una settimana. Leggo il giornale locale e lascio che la città mi passi davanti. Chiacchiero. Ascolto. Me ne imprimo. Così ho l’impressione di comprendere Palermo».
Crociere e gente di Laguna
Quelli che passano con la nave da crociera davanti a Piazza San Marco, nel Canale della Giudecca, spaccano il gioiello della Serenissima, perché vogliono vederla senza scendere. Pagano per questo e pensano di averne diritto. «I tir non sono autorizzati a entrare in una città normale, quindi perché le grandi navi possono attraversare un canale?», si chiede Dada, fotografa. «Sono contenta che sia successo l’incidente lo scorso luglio, per fortuna senza feriti gravi: speriamo che cambi qualcosa». A inizio giugno è andata a manifestare contro le grandi navi, e non è la prima volta.
Dopo averci vissuto per 4 anni, vengo a Venezia ogni volta che posso. Vengo per fare aperitivo con Mario, per il sabato al Mercato, per quel cielo, quella luce, quei campanili di novembre che si stagliano bianco su bianco. Vengo per non vedere più macchine, per perdermi, per camminare fino alla fine di Venezia e trovarmi davanti all’acqua. Per andare da Dada, nella sua casa in Calle dei Pensieri, di fronte al carcere. Vengo per le linee curve, quelle delle guglie, dei ponti, delle finestre ad arco, perché mi commuovono. Vengo perché un giorno spero di tornare su un’altana in Fondamenta Nuove, che è il posto più bello mai visto in vita mia. Un’altana è una terrazza montata in cima a un tetto, con la vista dai quattro lati. Era l’ora del tramonto e da lì si vedevano le isole e Venezia a forma di balena. Ma soprattutto vengo per i veneziani, che d’estate vanno alle feste: della Bragora, di San Francesco della Vigna, di San Pietro, del Redentore, di San Giacomo dell’Orio chiamato anche il campo dei bambini... «Almeno ci si ricorda quel poco che è rimasto di Venezia», dice una cameriera allargando le braccia.
Più ci vai e più bella è…
Il bello di conoscere Venezia è che non devi più andare in piazza San Marco finché proprio non te la sei quasi dimenticata e allora scegli una sera d’inverno, verso le dieci, e la cerchi nella nebbia. E ti appare bellissima. Non devi più fare le solite strade tra la stazione, Rialto, Accademia, Ponte dei Sospiri. Vai fuori. Misericordia, Castello, Zattere, Sant’Elena, le isole, la Giudecca. A ogni bivio vai dove c’è meno gente e presto ti trovi da solo, perché i 77mila sono tutti in giro al Canal Grande, davanti ai monumenti più famosi. Il bello di Venezia è che si nasconde.
E il miracolo di Venezia sono i veneziani, che si nascondono anche loro. In ogni calle ci sono i resistenti: veneziani che si salutano, passano davanti a un bar e gridano «Ciao Ilaria», «Vecio come x’è?», elegantissimi, ironici, raffinati da secoli di cosmopolitismo e libertà di pensiero, di incontro con lo straniero e da feste in maschera, dove si seduce con il ballo e con l’arguzia. Non li vedi subito in mezzo a quelle orde di macchine fotografiche sopra a magliette colorate, ma se stai fermo immobile li senti: parlano con il cane a spasso, tra loro mentre si scambiano qualche battuta prima di ripartire, si chiamano dalla finestra.
Conversazioni
È sera. Bar sotto casa di Mario, vicino al cinema Giorgione. Bepi è parte della combriccola. Sta leggendo un libro, anzi, deve proprio tornare a casa per continuare a leggerlo. «Voglio capire da cosa nasce la proprietà. Perché ho letto Marx e non me lo ha spiegato. Allora spero di capirlo in questo altro libro. Buona serata a tutti…».
Arriva Tullio. Non lo aspettavano. «Non sei dalle tue parti, ai Carmini? Lì c’è vita, c’è la libreria Marco Polo… In campo fanno tutti spritz, ma ai Carmini c’è quel bacaro in ordine no?». No, non c’è più. Ormai i bacari, i tipici locali veneziani da aperitivo, stanno rinunciando al vino della casa uno dopo l’altro: «E questo significa far fuori i veneziani», mi guardano tristi. Ma perché? Cosa si guadagna a far fuori i veneziani? «I veneziani fanno perdere tempo; i turisti vanno veloce e spendono di più», mi spiegano.
Campo Santa Margherita, 10 del mattino. Un signore anziano va dal tabaccaio con il sacchetto della spesa. Chiede il Corriere della Sera, paga e poi prima di infilare il giornale nella sua sporta, si rivolge all’edicolante: «Posso metterlo con il prosciutto, lei che è del mestiere?». «Anco coe sarde», risponde pronto il giornalaio, con un ghigno furbo, intelligente, immortale. E così inizia una nuova giornata.
SETTE ESPRESSIONI LOCALI
Ombra de vin
Bicchiere di vino. Un tempo San Marco era la piazza del mercato. Il vino veniva venduto all’ombra del campanile, per tenerlo in fresco. Così è nata questa espressione: «andiamo
a berci un’ombra?».
Ti ga i gransi in scarsea
Hai le braccine corte, sei tirchio, non metti mai le mani in tasca per prendere il portafoglio come se avessi paura di essere morso dai granchi.
Ti ga ciapa’ un plastego
Ti impappini. Viene dal gergo delle barche: se nel motore si incastra un sacchetto di plastica, la barca si inceppa. Come quando si ha la lingua impastata, oppure si fa una papera.
So ciapa’ coe bombe
Ho moltissime cose da fare. Come se dovessi correre sotto le bombe, non trovo il tempo
di fermarmi e riposare.
Oro benon, ciò
È oro, benone, ottimo, perfetto. Ciò è un’intercalare tipico veneziano – come il che argentino, il quoi francese… – e si può mettere dappertutto.
Petina scorese
Il materassaio, definito dall’immagine di uno che pettina le scoregge degli altri.
More (amore)
Un’altra meraviglia di Venezia è che tutti ti chiamano «amore», anche se non ti conoscono. Anche gli amici si chiamano l’un l’altro more.