Ricordando Giovanni Boggini
“Un buon formaggio lo senti prima che diventi formaggio. Lo senti con le mani e col naso. Come ci si arriva, a parole, non te lo so spiegare”.
Di Renato Bontognali e Lorenzo Erroi
Pubblichiamo un articolo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Con questo contributo apparso nel libro ‘Volti dell’alpe’ (SalvioniEdizioni, 2018), ricordiamo lo sfortunato Giovanni Boggini, agricoltore bleniese deceduto lo scorso 20 ottobre nella sua azienda di Aquila. Un’occasione per non dimenticare il ruolo del settore primario in Ticino, come pure le insidie che, come tutte attività lavorative, anche le occupazioni legate alla terra portano con sé.
Accanto ai vecchi “bregnòn” Giovanni Boggini, classe 1969, sembrerà quasi un “ragazzino”. Ma sull’alpe il gioco dei dualismi generazionali ha poco spazio: ogni figura di riferimento emerge da un affresco di tradizioni e memorie condivise, che rendono triviali gli scherzi dell’anagrafe. E questo non perché l’alpe sia un “mondo senza tempo”, come vorrebbe un abusato cliché letterario. Semmai, a incontrare Giovanni si capisce al volo d’avere di fronte un uomo ben piantato negli insegnamenti dei suoi predecessori, ma pronto ad utilizzarli per trasformare sempre la sua attività. “Non bisogna copiare, ma capire”, dice abbassando subito gli occhi, quasi avesse paura di suonare troppo sentenzioso.
Quasi per caso
E a far “capire” l’alpe e l’allevamento a Giovanni sono state tante persone diverse, in epoche diverse. Anzitutto il padre, che gli ha trasmesso l’attaccamento alla vita agricola e lo ha spinto a formarsi a Mezzana e in Svizzera interna, riportando in Valle di Blenio quanto appreso. E poi Franco Vanzetti, pietra angolare dell’alpe di Motterascio dal 1960. Persone dalle quali ha imparato la lungimiranza e il senso di responsabilità che servono per lavorare nell’alpe, “non come se ogni stagione fosse l’ultima, ma perché si possa sempre continuare”. Non a caso, da Franco, Giovanni ha preso anche l’attenzione alla formazione di casari e apprendisti, che vengono da lui per scoprire un mondo che spesso non vorranno più abbandonare. Una porta aperta per tutti: dai pastori italiani alla donna argoviese laureata in letteratura, autrice di racconti e reportage, che da qualche anno lo segue in qualità di aiuto-casara (divenuta poi sua moglie e la madre di suo figlio, ndr). E la stessa ospitalità è riservata ai passanti, accolti sempre con calore e invitati ad annotare un loro piccolo ricordo sul libro degli ospiti.
Non che tutto fosse già scritto, nel destino di Giovanni. Dopo le prime avventure d’infanzia, sull’alpe c’è tornato quasi per caso: stava facendo un apprendistato in un’azienda agricola oltre Gottardo quando lo chiamarono da Garzott (il prealpe sul quale si apre e si chiude la stagione dell’alpe di Motterascio). Mancava un casaro e allora vollero lui, che a parte qualche esperienza empirica a casa propria non aveva mai casato. Prese tutte insieme le cinque settimane di ferie annuali, e due giorni in Giumello, l’alpe-scuola del Centro di Mezzana, furono la sua prima formazione teorica.
Lezioni di montagna
Poi via, “con l’incoscienza che hai a 17 anni. Ma ben concentrato e attento, ché non volevo sbagliare nessuna casata”. Era il 1986, si mungeva ancora a mano. “Ogni giorno andavo a guardare le forme, avevo paura che si gonfiassero. Invece poi è andato tutto bene. E poi eravamo tre, tutti giovanissimi, con mio cugino e una ragazza a fare da pastore. Alla fine è stato anche un divertimento”. Ma anche un modo per imparare che per fare il formaggio “non devi mai dare niente per scontato”.
Due anni dopo Giovanni è passato all’alpe principale di Motterascio, sopra i duemila, in cima a un percorso più adatto ai camosci che agli uomini. Proprio lui, discendente di un nonno che era rientrato in valle dopo trent’anni a Londra; e forse ci sarebbe voluto anche rimanere: “Erano tanti da Aquila che lavoravano nei ristoranti lassù, facevano comunità. Ho ancora le lettere che si scrivevano, in inglese. Quando tornò negli anni Trenta ce ne volle, per riabituarsi alla vita da contadino. Non era più pratico e lo prendevano in giro…”.
Seguendo il cammino tracciato dal “maestro” Vanzetti, a Motterascio Giovanni ha costruito legami forti, imparando a gestire il gruppo, per dirla in gergo sportivo. “Le persone devi lasciarle provare e sbagliare, non puoi sempre stargli addosso. Ci vuole anche diplomazia”. Una cerchia di collaboratori e amici che rappresenta la sua comunità d’altura, quando lascia Aquila e “dico a tutti in valle: per tre mesi non ci sono per nessuno”.
È questa libertà d’alta quota che ha conquistato Giovanni. Libertà non dal lavoro e dai suoi ritmi, che anzi vanno seguiti con energia e rigore. E di certo non libertà dallo “stratempo”, dalle nevicate sorprendenti e improvvise, dai periodi di pioggia. Quando tutto attorno è umidità, fango, animali spaventati. Semmai, la libertà data dalla natura incontrastata, la libertà come spazio fisico e personale, come completa autonomia nel gestire il proprio mestiere. Libertà che fa il paio con i ricordi più belli: “La cantina bella piena, le visite degli amici, il pomeriggio quando ti fermi un attimo all’aperto a tirare il fiato, e dopo la fatica trovi davvero una gran tranquillità”.
Difficile dirlo, a parole
Una sensazione che gli resta dentro anche d’inverno: “A volte magari una luce, un odore, una veduta mi fanno venire in mente l’alpe. Ci penso sempre. Non vedo l’ora di risalire. E quando scendo, a fine stagione, mi trovo sempre la scusa di qualche lavoretto per poterci ritornare”. In questo, Giovanni non crede che lo spirito sia cambiato rispetto ai suoi predecessori. Ce lo conferma involontariamente, con parole che abbiamo sentito spesso anche dai “vecchi”: “Quando arriva primavera non c’è niente da fare, inizi subito a guardare in su”.
Un istinto, lo stesso che guida il suo lavoro. Perché la ricchezza dei pascoli, la varietà della flora, l’aria d’altura non bastano a fare un formaggio eccezionale. La mano del casaro fa la sua parte. Ma come? Giovanni esita un attimo, a frenarlo dev’essere lo scrupolo di passare per uno che vuole dare lezioni. Ma insistiamo, e un po’ si sbottona: “Come vanno le cose con gli animali, col latte, con la cagliata: tutto questo impari a sentirlo con l’esperienza; un buon formaggio lo senti prima che diventi formaggio. Lo senti con le mani e col naso. Come ci si arriva, a parole, non te lo so spiegare”.