Teatro: vivere il palco, ma in modo diverso
La recitazione può diventare un laboratorio dove rileggere il proprio vissuto, a volte drammatico e molto doloroso. Ecco alcune esperienze e testimonianze
Di Palma Grano
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.
L’iconico attore Gigi Proietti spesso diceva nei suoi spettacoli: “Benvenuti a teatro. Dove tutto è finto ma niente è falso”. Quanta verità si celava dietro questa frase del Mandrake. Il regista Eduardo De Filippo diceva pressoché lo stesso: “Nel teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita”.
Nel teatro, dove non c’è il filtro della televisione o del cinema, tutto succede in diretta davanti agli spettatori, gli attori non hanno diritto di sbagliare. Qui “buona la prima” è la regola. È per questo motivo che l’attuazione dev’essere reale come la vita stessa. Sin dai greci si parlava di esperienza catartica per gli spettatori. Inoltre non esiste solamente l’esperienza catartica definita da Aristotele come l’opportunità di usare il teatro per liberarsi attraverso questo tipo di spettacolo dalle emozioni, dai ricordi e dalle esperienze negative. Il teatro sotto quest’ottica fa sorgere sentimenti connessi con problemi socialmente riconosciuti. Rappresentarli sul palco serve allo spettatore come una sorta di cura. Il drammaturgo spagnolo José Moreno Arenas, invece, parla di un altro tipo di catharsis, una catarsi che si allaccia alla creatività, alla partecipazione attiva negli psicodrammi teatrali e alle stesse formazioni teatrali. In questo caso sono gli attori stessi che creando esperienze negative e facendole rivivere sul palco possono sviluppare la creatività necessaria per trovare nuove soluzioni a questi problemi. È negli anni Sessanta che Boal, il fondatore brasiliano del “Teatro do Oprimido”, ci propone
una terza via per affrontare questa catarsi. Questa volta al pubblico è permessa una partecipazione attiva in cui può proporre soluzioni dopo le scene introduttive svolte dagli attori.
© Aram Sürmeli
Atelier di teatro a Maxmur Camp. Prove generali per la presentazione finale al Teatro Grande di Maxmur.
Benessere ed elaborazione del vissuto
In un articolo di Sara Fernández-Aguayo e Margarita Pino-Juste dedicato alla terapia drammaturgica e al teatro come strumenti d’intervenzione (contributo presente nel periodico The Arts in Psychotherapy, 2018), le autrici trattano il ruolo del teatro e delle sue tecniche di attuazione per promuovere la salute. Infatti, non scordiamoci che la definizione di salute per l’OMS è “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non solamente l’assenza di malattie. È in questa linea di pensiero che per questi due autori il teatro utilizza processi che sono fondati sulla pratica, lo sviluppo delle relazioni, le emozioni, l’immaginazione, l’apprendimento, la conoscenza di sé, la fiducia e l’autostima. Insomma, un vero toccasana per tutti noi.
Ci sono però situazioni in cui questo toccasana diventa qualcosa di più, perché permette agli operatori teatrali di condividere alcune tecniche che si rivelano fondamentali per coloro i quali vivono situazioni di forte stress come quello causato dai conflitti bellici. Non a caso il “Teatro dell’Oppresso” che prende ispirazione dal pedagogista Paolo Freire, nasce a Rio de Janeiro nelle favelas, dove i ragazzi soffrono disagi analoghi a quelli che si provano in un conflitto bellico. Ed è in questi posti che il teatro è come un vaccino che offre una certa immunità ai dolori della guerra. Non pretende di essere una cura, ma consente di evadere dalla realtà o di affrontarla con strumenti diversi. Ed è proprio a questo proposito che intervistiamo l’attrice e autrice Giorgia Marzetti, classe 1991, che ci racconta la sua esperienza nel portare il teatro in zone di crisi. Chiacchierando con Giorgia si capisce subito che, dopo un primo avvicinamento giocoso al teatro e alla danza negli oratori di San Benedetto del Tronto e nel Teatro del centro sociale di Macerata, non avrebbe più abbandonato il palco. Al contrario il teatro diventa il suo compagno di viaggio e difende a spada tratta il carattere generoso di quest’arte.
© Aram Sürmeli
Scena di narrazione. Giorgia propone il gioco ‘1, 2, 3, stai là’.
Da Dimitri ai conflitti
La giovane marchigiana, laureatasi all’Accademia Teatro Dimitri in Physical Theater è convinta del potenziale di portare il teatro in diverse zone di crisi del mondo, nei centri d’accoglienza, negli ospedali, e nelle case famiglia. Collaborando con Clowns Senza Frontiere Svizzera ha gestito le attività in Svizzera di un progetto chiamato Grüezi e nell’estate 2019 parte per i Balcani, creando il progetto “Ava!”. Ora è reduce da un’esperienza presso la località di Maxmur nelle aree curde del Nord Iraq. Quest’attività è la conseguenza logica di un suo percorso presso l’Accademia Teatro Dimitri, dove durante il suo percorso di formazione sul teatro di gesto e di movimento, inizia a prendere parte a degli atelier con richiedenti asilo. Giorgia ne ha un bel ricordo e ci confida: “Erano degli incontri che si svolgevano troppo di rado e decisi di proporre al mio docente di teoria di farli ogni settimana. Erano un’opportunità di arricchimento culturale magnifico. In un secondo momento, il vice-decano di allora mi presentò l’idea di creare un Certificato di Studi Avanzati (CAS) sul teatro in zone di conflitto”.
Giorgia decide così di prendere la palla al balzo e seguire il corso della docente teatrale Anina Jendreyko. Giorgia ci spiega che “in questa formazione abbiamo imparato a lavorare sulla respirazione, il contatto, a interagire con la collettività, a utilizzare le risorse insite degli esseri umani e a trattare soggetti che stanno affrontando un trauma. Tengo a precisare che non agiamo come terapeuti ma come operatori teatrali”. Per Giorgia è importante distanziarsi da questa visione di teatro come terapia: preferisce vederlo come un gioco. Poi che abbia il piacevole effetto collaterale di rivelarsi una cura, questo non si può evitare. Per Giorgia il teatro è anche incontro. Ci spiega: “È un luogo dove gli esseri umani s’incontrano al momento presente e si confrontano con una rappresentazione della realtà. Questa realtà crea il gioco”. Giorgia insiste sul fatto che il teatro sia un gioco con delle regole che servono a raggiungere un obiettivo. Il vantaggio di questo gioco è che permette alle persone di scoprire nuove forme di comunicazione e nuovi tipi di approcci al contatto.
© Aram Sürmeli
Esercizio di pantomima al Teatro Grande. Le ragazze e i ragazzi dell’atelier riproducono un muro per poi farlo magicamente sparire.
Tutti insieme, in scena
Giorgia parla dell’importanza dei gesti. Dice che nei suoi atelier grazie al movimento i ragazzi si avvicinano a ciò che sono e di cui magari non sono ancora consapevoli. Nei suoi atelier rivolti ai giovani preferisce utilizzare i gesti alla voce perché ci confida che è proprio attraverso l’azione non-verbale che i giovani riescono a esprimersi meglio. Ci parla anche dell’importanza del rituale. Confidandoci che “era importantissimo stabilire di mattina un modo creativo per salutarci. Vedere 150 giovani, condividere il buongiorno come un rito offre un senso di collettività dentro e fuori lo scenario”.
Durante una giornata tipo dei suoi atelier riesce a condividere con i partecipanti un primo approccio al teatro. È un tipo di teatro che permette di allargare gli orizzonti dei giovani. Si offrono degli strumenti teatrali per comunicare al meglio con gli altri. Solo in un secondo momento passa alla dimostrazione basata sulle pantomime, sul movimento, spesso di clown. Quest’ultima figura fa capire ai giovani l’immenso potenziale comunicativo della gestualità. Attraverso la mimica di situazioni come, per esempio, il semplice piantare un seme, i ragazzi si sciolgono. E da lì in poi il teatro si costruisce tutti insieme. Dal suo racconto di queste sequenze riassunte in poche righe, traspare la magia che il teatro offre.
L’atto di entrare in scena è presentato loro come un passo importante che ci separa dalla realtà. Attraverso una sequenza d’improvvisazione, i giovani sono invitati a utilizzare l’immaginario ed uscire quindi da situazioni difficili. Il teatro in questo caso è anche evasione. Ricorda: “Nei territori curdi dell’Iraq, i bambini all’inizio dell’atelier si dirigevano tutti verso la finestra quando sentivano gli elicotteri dell’esercito turco passare. Era indifferente che cosa stessimo facendo. Solo con il passare del tempo questi stessi ragazzi, sviluppando l’immaginario, rimanevano attenti al momento presente dentro la sala e si dimenticavano così delle forze aeree turche che passavano sopra i nostri tetti”.
© Aram Sürmeli
Giorgia e Robert incontrano le scuole. Prima presentazione delle attività coinvolgendo il piccolo pubblico.
Un potenziale enorme
Chiedo invece all’autrice del CAS, Anina, di citarmi un’esperienza che l’ha marcata. Ci tiene a non precisarne nessuna ma a mettere l’accento sull’incontro. Si riferisce al fatto che un incontro autentico tra persone diverse fosse possibile proprio grazie al teatro. Risalta l’importanza che si sia creata una comunità intorno a questo lavoro teatrale. Le decisioni riguardanti gli atelier venivano prese insieme ai formatori locali. Ci racconta: “Ci sono diversi livelli di scambio e di apprendimento reciproco che avvengono in questo progetto. Il fatto di entrare in una quotidianità attraverso il teatro è un’opportunità fantastica. C’erano molti momenti di condivisione di vita comune con i partecipanti. È sempre molto arricchente partecipare attivamente in un campo di rifugiati che si autogestisce”. Questa vita in comune con i partecipanti è servita a potenziare l’energia creativa e la resilienza di tutta la comunità. Bisogna però ammettere che i partecipanti europei si trovano con un altro status di diritti e privilegi. Per Anina questo non dev’essere un tabù da nascondere, bensì va affrontato per trovare strategie rivolte almeno a limitare queste differenze all’interno della comunità teatrale. Le immagini fornite da Anina e Giorgia fanno comunque riflettere sul potenziale del teatro non solo nelle zone di conflitto ma ovunque. In un mondo in cui il contatto attraverso il gesto fisico sembra sempre meno accessibile, il teatro è utile per recuperare l’importanza dei gesti e del contatto.
È di rilevanza l’opinione della ricercatrice della South Bank University di Londra, Nelly Alfandari, sul potenziale del teatro nelle scuole. Ci risponde così: “Il teatro è un’opportunità e una sfida per l’educazione. È un modo per osservare, riflettere o sentire cos’è la vita attraverso la rappresentazione della stessa in uno scenario. Consiglio il teatro partecipativo, che invita i ragazzi a utilizzare il proprio bagaglio personale per creare collettivamente. Inoltre, permette di pensare nuovi immaginari e di essere spettatori e attori allo stesso tempo”.
Sorge spontaneo riprendere in chiusura la storica frase di Gigi Proietti “non sono mica Mandrake”, riferendosi al leggendario mago dei fumetti che utilizzava i suoi poteri per fare del bene. Con “quel tutto è possibile” , chissà che per Proietti il teatro non fosse Mandrake, un mago capace di offrire possibilità inimmaginate a chi si mette a giocare al teatro della vita.