Il lungo cammino di Lokman Kadak

Nei luoghi in cui il vento della storia soffia ostile, le esistenze si consumano più velocemente. “Ho 42 anni, ma sono diventato come un anziano” racconta, riferendosi a tutte le avversità affrontate nella sua vita.

Di Cristina Pinho

Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

È originario del Kurdistan, altopiano che si estende per 400mila chilometri quadrati in Medioriente, abitato in prevalenza dalla popolazione di etnia curda. Nel 1923 questi territori sono stati divisi tra Turchia, Siria, Iran e Iraq. Soprattutto in Turchia, i curdi subiscono una politica di assimilazione e repressione volta a negare l’identità e l’esistenza del popolo stesso. Da decenni sono in lotta perché venga riconosciuto il loro diritto all’autodeterminazione. Come forza di resistenza, nel 1978 nacque il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), organizzazione paramilitare che ha attraversato varie fasi, dal marxismo-leninismo al confederalismo democratico, accusato di terrorismo da Turchia, Usa e Ue. Il fondatore, Abdullah Öcalan, da 21 anni sta scontando l’ergastolo.

Sentendolo parlare si fatica a credere che il suono delle frasi che pronuncia Lokman sia tanto recente per lui. “In prigione in Turchia volevo studiare le lingue, ma ho avuto accesso solo a un libro di italiano per due settimane. Quando sono arrivato a Chiasso non sapevo nemmeno il significato della parola “mangiare”; era 22 mesi fa”. La scansione precisa del tempo tornerà spesso nella nostra conversazione a soppesare il valore di ogni frangente. Figlio del popolo curdo senza terra, Lokman ha cercato in più posti l’autodeterminazione che gli è sempre stata negata. Ripercorrendo il ginepraio di circostanze che ha determinato la sua vita, mi racconta di quando nel ’98 ha lasciato la sua Mardin, cittadina arroccata su un monte, diretto verso la grande Istanbul. “Poco dopo è stato arrestato Öcalan, leader del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che per lo Stato turco è un’organizzazione terroristica”: nel Paese, il clima già saturo di tensione si è caricato ulteriormente. “Come tanti altri sono finito in prigione, per 12 mesi. Ho passato 5 giorni terribili nelle mani della polizia”. Dalle fenditure di un rifugio nella mente filtrano le parole “elettricità, e altre cose che non voglio ricordare…”, lasciando intendere l’atrocità celata dietro la reticenza.

Kurdistan-Turchia (via Russia)

Rilasciato per l’infondatezza di ogni accusa, aderisce al Pkk e va sulle montagne. “Volevo trovare una soluzione per i problemi dei curdi, ma dopo un periodo di militanza ho lasciato ogni attività politica”. Per 12 anni vive nel Kurdistan iracheno: “Lì mi sono sposato, sono nati i miei due figli e ho sempre lavorato in diverse attività di marketing, catering e ho anche aperto un negozio”. La situazione però via via si complica a causa del suo legame col partito. “Siamo andati in Russia, dove mia moglie e i miei figli hanno la cittadinanza, ma ci minacciavano continuamente”. È quindi la volta della Slovacchia e dell’Ucraina, da dove, per mandato dell’Interpol, viene ricondotto in carcere a Istanbul. “Allora anche mia moglie ha deciso di andare in Turchia con i bambini per stare dai miei genitori. Il problema ancora adesso è che il loro visto è scaduto e quindi non possono spostarsi perché se li controllano li espellono”. Lei non può dunque lavorare e i bambini, che hanno 12 e 14 anni, non vanno a scuola: “La più piccola l’ha frequentata solo per un anno, quando ne aveva 7”.

Dal carcere al bunker

Scarcerato dopo 18 mesi, in attesa della decisione della Corte d’appello a cui aveva contestato la condanna a 6 anni e 3 mesi di reclusione per affiliazione al Pkk – poi confermata –, decide di fuggire in Svizzera e chiedere asilo politico. Viene assegnato al Ticino, e il primo periodo lo trascorre nei bunker della Protezione Civile di Stabio, per poi essere trasferito nel Centro della Croce Rossa di Cadro. Ora da 2 mesi vive in un appartamento a Locarno: “Qui sono comodo, ho la mia piccola cucina e anche una tv; la città è bellissima, come tutto il Ticino, e la gente è accogliente. Mi trovo bene, anche se ho problemi di salute, ho fatto quattro interventi ai reni”. L’assuefazione ai dolori sviluppata lungo il suo incedere gli ha permesso di sopportare innumerevoli situazioni. “Ma adesso – ammette – sono stufo. La mia famiglia è laggiù, con la vita paralizzata, e ho paura per loro ogni giorno”.

In attesa di…

Tredici mesi fa la Segreteria di Stato della migrazione gli ha negato l’asilo, così Lokman ha fatto ricorso al Taf perché il suo caso di persecuzione giudiziaria venga riconsiderato. Nella logorante attesa per conoscerne l’esito, il 22 giugno ha deciso di intraprendere una marcia a piedi da Locarno a Berna la cui conclusione è prevista il 5 luglio. Vari media e cittadini ticinesi gli hanno dimostrato interesse e solidarietà: “In tanti mi hanno contattato per offrirmi un posto dove dormire sul tragitto”. Il suo obiettivo è far sentire la propria voce alle istituzioni, “sperando che non chiudano la finestra”. È l’ultimo modo che ha trovato per tentare di far fronte al proprio dramma e sensibilizzare su quello del suo popolo. La richiesta è semplice: “Poter vivere finalmente in un Paese che garantisca la mia integrità fisica e quella dei miei cari”. Quei minimi diritti che sono la cornice per il fiorire di ogni individuo, e che lui, stanco ma nuovamente in cammino, vuol concedere almeno ai propri figli.

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