Clarence, Martin e il capitolo della “Black History”

Ogni anno, il mese dedicato alla storia e al ruolo degli Afroamericani è febbraio. Ma il mio fu a giugno. Era il 2016, a Louisville, in Kentucky.

Di Emiliano Bos

Ogni anno, il mese dedicato alla storia e al ruolo degli Afroamericani è febbraio. Ma il mio fu a giugno. Era il 2016, a Louisville, in Kentucky. Mezza America accorse lì a piangere Muhammad Ali. Il Gigante che pungeva come un’ape era volato via come una farfalla. Prima dei funerali solenni ci fu la preghiera islamica al centro fieristico della città. Arrivò – autoinvitatosi – persino il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. A fianco di una moltitudine immensa di semplici cittadini, non mancarono i mostri sacri della boxe. Nel parcheggio, sotto un sole infuocato, incontrai anche il promotore del celebre incontro “Rumble in the jungle” del 1974 nell’allora Zaire. “Il giorno del combattimento andai a correre con Muhammad Ali lungo il fiume Congo, io in t-shirt, lui con i pesi nella felpa, fradicio di sudore”, mi raccontò. Una testimonianza intensa, una stretta di mano e un nome appuntato sul taccuino. Questo garbato e distinto organizzatore di incontri di pugilato m’incuriosì parecchio. Il primo responso di Google fu chiaramente un’omonimia: “Consigliere personale, avvocato e amico di Martin Luther King, scrisse la prima parte del famoso discorso I Have a Dream”. Impossibile. Nuova frenetica ricerca. Identico risultato. Unica soluzione: il confronto delle foto, fresco di memoria visiva. Era proprio lui. Un pezzo di “black history” – non un mese, ma mezzo secolo – mi era scivolato accanto e non me n’ero accorto. Scattò l’inseguimento, durato due anni. Nel 2018 l’atteso nuovo incontro con Clarence B. Jones. Era febbraio, stavolta in assonanza perfetta col mese che ogni anno celebra queste e altre incredibili storie di Afroamericani.


Clarence B. Jones, oggi novantenne, scrisse la prima parte del discorso I have a dream, pronunciato da Martin Luther King (Emiliano Bos)

Il campanello e il gran rifiuto

Sul divano di casa sua appena fuori l’Università di Standford, per tre ore ininterrotte mi ha raccontato dell’afroamericano a cui tutti pensano in questo mese: Martin Luther King. La loro lunga amicizia e collaborazione inizia però con un rifiuto, nel 1960. “Suonò il campanello a casa mia, qui in California. Ma io gli dissi che non volevo lavorare per lui in Alabama”. Il già celebre pastore gli chiese delle sue origini. “E io gli spiegai di essere figlio unico, i miei genitori lavoravano come domestici. Mi misero in un collegio di suore irlandesi dai 6 ai 14 anni…”. Il giorno dopo dal pulpito di una chiesa, Martin Luther King nell’omelia descrive una domestica di colore che pensa al figlio mentre pulisce le scale. “Io ho iniziato a piangere, avevo negli occhi l’immagine di mia madre vestita da domestica, era chiaramente un messaggio rivolto a me”. Alla fine di quella celebrazione, Clarence si mise a disposizione di “Martin”, come ricorda lui. Fu l’inizio di un sodalizio umano, professionale e ideale che passò anche dalla memorabile marcia di Washington, nell’agosto del 1963.


Il balcone del Motel Lorraine di Memphis dove venne assassinato Martin Luther King nel 1968 (Emiliano Bos)

I Have a Dream e quegli appunti

“Clarence, perché non vai in stanza e provi a fare una sintesi degli appunti?”. Clarence mi racconta della richiesta di Martin Luther King con gesti ampi delle mani, affondato su un divano sotto lo sguardo del leader dei diritti civili in una foto in bianco e nero. Quegli appunti erano il frutto di una discussione a tratti tesa tra il “Dr. King” e alcuni consiglieri alla vigilia della marcia.

Il mio interlocutore riordinò quei fogli e glieli consegnò. Senza sapere che le sue parole sarebbero diventate poche ore dopo l’incipit del più conosciuto discorso di Martin Luther King. Quel giorno, sulla spianata del Mall di Washington, il compito di Clarence era particolare: accompagnare i divi di Hollywood. “Charlton Heston aveva il suo braccio appoggiato alla mia spalla, e tutti gli altri in fila che camminavano dietro di lui: Paul Newman, Steve McQueen, Marlon Brando… non lo dimenticherò mai”. Difficile anche dimenticare cosa accadde dopo. “Mentre lo ascolto, oh mio Dio… Martin Luther King sta pronunciando le parole esatte che io avevo suggerito, sembrava che non avesse cambiato nulla nei primi 7 paragrafi”. Sapevo che questa conversazione con Clarence B. Jones non sarebbe stata un’intervista come le altre. Tanta emozione. E pure la pelle d’oca.

“Durante questa parte del discorso la cantante gospel Mahalia Jackson, che si era esibita prima, grida: “Martin, parla loro del sogno!”. E qui Clarence imita la postura dell’oratore che ha cambiato l’America. “Io mi trovo alle spalle di Martin Luther King. Lo vedo che sposta i fogli dal leggio, lo afferra e volge lo sguardo a destra e a sinistra in un unico movimento”. Da quel momento in poi il discorso – assicura – fu estemporaneo e non scritto. “I Have a Dream…”.


Una protesta di un gruppo di studenti dopo l’uccisione dell’Afro-Americano George Floyd da parte di un poliziotto nel 2020 (Emiliano Bos)

Da Memphis a Minneapolis

Quel sogno – e anche la loro amicizia – fu interrotto il 4 aprile 1968. Ancora Clarence B. Jones: “Il giorno dopo l’assassinio di Kennedy, Martin Luther King mi aveva detto: se possono colpire il presidente, possono arrivare anche a me”. Non si sbagliò. Chiunque vada a Memphis per ascoltare il blues lungo il Mississippi, può vedere ancora il balcone del Lorraine Motel dove fu assassinato. Proprio sotto quel cielo dove risuonarono gli spari, come cantano gli U2. Quell’anno, la commissione d’inchiesta federale nominata dopo i tumulti nelle periferie scrisse: “Il comportamento della polizia è la causa principale delle rivolte nei ghetti” afroamericani. Ne scoppiarono altre anche dopo l’assassinio di King.

Nel 2020 il Paese è tornato a ribollire di proteste per la violenza razzista degli agenti, dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto bianco. “Scriva omicidio, per favore. Non uccisione” mi disse al telefono l’estate scorsa Clarence B. Jones, tuttora direttore dell’Istituto per la non-violenza e la giustizia sociale all’Università di San Francisco.

È passato oltre mezzo secolo da quelle rivolte. Ma adesso – aggiunge – “è straordinario il grande numero di persone non afroamericane, cioè di bianchi, mai visto nella storia di questo Paese. Stanno sostenendo il movimento di chi – come noi afroamericani – rappresenta solo il 13% della popolazione qui negli Stati Uniti”. Nuovi capitoli continuano ad aggiungersi al Black History Month.

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