Di tutto un pop: Stevie Wonder, il ragazzo dei miracoli
Siamo nell’ottobre del 1972 e nei negozi arriva “Talking Book”. Stevie aveva 22 anni e 19 dischi alle spalle. Sarà un capolavoro e altri ne seguiranno
Di Sergio Mancinelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Sergio Mancinelli
Il mese di ottobre, nel tempo, è sempre stato ricco di grandi uscite discografiche. Del resto era uno dei periodi migliori dell’anno. La ripresa delle scuole e delle università, con un pubblico giovanile desideroso di nuova musica da ascoltare e condividere. Nell’ottobre del 1972 Stevie Wonder pubblicò il suo primo capolavoro: Talking Book. Aveva 22 anni ma già 19 dischi alle spalle. Il primo nel 1962, tributo a Ray Charles. “La musica – ha sempre detto – è stata la mia salvezza”. Pochi giorni dopo la nascita, l’incubatrice che lo accoglieva, per un guasto nel dosaggio dell’ossigeno, gli causò la cecità. La musica diventò il suo rifugio. Leggenda vuole che dentro casa Stevie suonasse con dei cucchiaini tutto quello che avesse a disposizione. A quel punto i genitori iniziarono a comprargli i primi strumenti e lui, a nove anni, era già padrone di batteria, armonica e pianoforte, che studiava alla Michigan School for the Blind. Il primo contratto lo ebbe a 12 anni, registrò un paio di dischi ma, intorno ai 14 anni, rimase fermo per più di un anno perché la sua voce stava cambiando e la tonalità si modificava di settimana in settimana. Una voce che poi è diventata un capolavoro di intonazione: la voce perfetta!
Talking Book è il disco che consacra Stevie Wonder, nato però in un momento doloroso: la separazione e il divorzio da sua moglie Syreeta. E quel cuore spezzato dedicò proprio a lei: “You are the Sunshine of My Life”, “sei il sole della mia vita, ecco perché ti sentirò sempre vicina, sei la pupilla dei miei occhi, resterai sempre nel mio cuore”. Quando fu messo sotto contratto dalla Motown, fondata da Berry Gordy, ‘Little Stevie’ aveva 12 anni e per i dieci successivi ricevette una normalissima busta paga mensile, mentre i dollari maturati con i diritti d’autore delle sue canzoni finivano su un conto corrente al quale avrebbe potuto accedere al compimento dei 21 anni. Per cui, il fatidico giorno di quel compleanno, si meravigliò non poco di avere un milione di dollari in banca, ma si meravigliò ancor di più quando scoprì che le sue canzoni, in realtà, di milioni di dollari ne avevano fruttati 30. Non fu un giorno facile da affrontare per Berry Gordy, il suo discografico che, nonostante la fama di duro irremovibile, fu costretto a rinegoziare il contratto e, a titolo di risarcimento, costruì a Stevie Wonder uno studio di registrazione personale tecnologicamente all’avanguardia, dentro il quale venne creata e registrata “Superstition”.
Il periodo magico di Wonder iniziò nel 1972 con due album: oltre a Talking Book uscì anche Music on My Mind, entrambi coronati da un trionfale tour con i Rolling Stones; proseguì l’anno successivo con l’arrivo di Innervision, l’album della svolta della musica soul, sia per l’innovazione dei suoni che per l’intensità dei testi, di cui “Living For the City” è la punta di diamante. L’America stava attraversando un periodo difficile dopo gli spensierati anni Sessanta: Vietnam, Watergate, crisi petrolifera, criminalità, droga, degrado urbano. La storia di una famiglia afroamericana nella quale i genitori hanno lavorato duramente per permettere ai loro due figli un futuro migliore. Ma entrambi i ragazzi sono disincantati, sentono l’impossibilità anche di poter salire sull’ascensore sociale. Per presentare “Living For the City” alla stampa, Stevie Wonder convocò alcuni giornalisti, conduttori della radio e anchorman televisivi, per far fare loro un giro in pullman e ascoltare l’album in anteprima. Prima di salire a bordo li invitò a indossare una mascherina sugli occhi del tipo di quelle che si indossano sugli aerei per poter dormire. “Proverete quel che provo io ogni giorno, ascoltando i rumori intorno a me, quelli del traffico, delle voci, dei passi, sentirete nelle narici gli odori di New York salire dal basso come forse non li avete mai percepiti. Questo è quello che io sento sempre non potendo vedere quello che c’è intorno, ma spero con questa canzone di farlo sentire anche a voi”.
Quel momento d’oro rischiò di spezzarsi per uno spaventoso incidente stradale dal quale Stevie Wonder si salvò miracolosamente e un paio di mesi dopo l’artista volle assolutamente tornare a suonare dal vivo. Andò a trovare Elton John, al suo concerto di Boston, che all’improvviso interruppe lo show e rivolgendosi al pubblico disse: “Un mio amico è qui stasera, è stato gravemente ferito in un incidente qualche tempo fa”. Prima che potesse continuare, i 15’500 presenti esplosero in un’ovazione: una tastiera elettrica venne portata sul palco e i due suonarono “Honky Tonk Women” e “Supestition”. Fu il momento della rinascita che porterà Stevie Wonder a iniziare a comporre le canzoni per Songs in the Key of Life, il doppio album dei record che si apriva con “Sir Duke”, una delle canzoni dedicate ai suoi riferimenti musicali: in questo caso a Duke Ellington. In “Sir Duke” vengono citati Count Basie, Glenn Miller, Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald. Più che un pezzo, è il trionfo degli ottoni: trombe, tromboni, sassofoni sono i protagonisti assoluti. Quei suoni che erano la ‘cifra stilistica’ di Duke Ellington e che hanno rappresentato l’apice artistico di Stevie Wonder.
Di forte impatto emotivo era anche un’altra canzone contenuta in quel fantastico album: “Isn’ she lovely”, dedicata a sua figlia Aisha nata da pochissimi giorni. Non essendoci ancora i campionatori elettronici e avendo voglia di mettere anche i primi vagiti della figlia su disco, Stevie prese un microfono e registrò prima il pianto e poi la soddisfazione della bambina mentre faceva il suo primo bagnetto, tanto che alla fine si sente la sua voce che dice: “… dai Aisha esci dall’acqua!…“.
Le energie spese per incidere Songs in the Key of Life prosciugarono sia fisicamente che musicalmente l’artista, che per i successivi tre anni non compose né registrò nulla tranne una colonna sonora per un documentario. La svolta creativa arrivò allo scoccare del nuovo decennio. Nel 1980 pubblicò Hotter Than July con, all’interno, “Happy Birthday” dedicata a Martin Luther King e “Master Blaster Jammin” dedicata poi a Bob Marley. Un forte legame di stima e amicizia li univa da quando – cinque anni prima, nel 1975 – si erano trovati sullo stesso palco a Kingston in Giamaica e pochi mesi dopo a Philadelphia. Stevie Wonder pensava che le persone potessero davvero vivere attraverso la pace ed era convinto che con l’aiuto di Marley sarebbe riuscito a portare a questa consapevolezza tutto il popolo afroamericano. “Master Blaster Jammin” l’aveva scritta per cantarla con Marley; purtroppo non ve ne fu il tempo.
Gli anni Ottanta sono stati per Stevie Wonder quelli dei dischi d’oro e di platino grazie anche a collaborazioni uniche, prima tra tutte quella con Paul McCartney, con il quale nel 1982 incise “Ebony and Ivory”, titolo che McCartney prese in prestito da un libro di Spike Mulligan: ‘Note nere, note bianche e devi suonarle tutte e due per creare armonia: questa è la chiave’. L’Ebano e l’Avorio sono i tasti del pianoforte e il superamento delle barriere e dei pregiudizi razziali passa anche attraverso questa canzone. Quei tasti bianchi e neri rappresentano la metafora migliore. Perché il suono esca perfetto, c’è bisogno della loro armonia; della presenza e dell’azione, insieme, di entrambi.