Geolocalizzazione e ansia da separazione

Fin da bambini sviluppiamo la consapevolezza della ‘permanenza dell’oggetto’. Ma se la tecnologia ci mette lo zampino, le cose possono cambiare
Di Mariella Dal Farra
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Fin da bambini impariamo, attraverso il gioco, a capire la distanza e/o l’assenza delle persone o degli oggetti. L’attività ludica ci insegna che persone e cose esistono (ci sono) anche se non le vediamo e, crescendo, impariamo a tollerare il distacco. Questa competenza è importante per crescere autonomi sapendo relazionarci con il prossimo. La tecnologia – in questo caso le app di localizzazione – è però una variabile che può influire negativamente su questo processo, con le problematiche del caso.
C’è un gioco universalmente conosciuto e praticato dai genitori con i loro bambini piccoli: il “bubusettete”, noto anche come “bausettete” o “peek-a-boo”, in inglese. Di solito si svolge così: l’adulto guarda negli occhi il proprio bambino, poi nasconde il viso con le mani, attende qualche secondo e infine lo scopre esclamando “bubusettete!”. A questo punto, il bambino, che nella prima parte del gioco manifesta sorpresa e una lieve apprensione, invariabilmente scoppia a ridere e chiede alla mamma o al papà di rifarlo… e rifarlo… e rifarlo ancora, per un numero potenzialmente infinito di volte.
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Cosa ci sarà mai di così divertente in questo gioco, potrebbe chiedersi un osservatore esterno, soprattutto se adulto e non ancora genitore. In realtà, il piacere manifestato al riapparire del viso della mamma o del papà è sia di tipo cognitivo che affettivo. Partendo dal primo, attraverso questo tipo di interazione il bambino sta imparando che, anche se non può vedere una persona, quella continua ad esserci da qualche altra parte (per esempio, dietro le mani che la celano alla vista), e questo apprendimento è di per sé fonte di soddisfazione, come tutto ciò che impariamo spontaneamente in età evolutiva.
La permanenza dell’oggetto
La cosiddetta “permanenza dell’oggetto”, ovvero la consapevolezza che le cose ci sono anche se non le stiamo percependo attraverso i nostri sensi, è di fatto, all’inizio, tutt’altro che scontata. La sua acquisizione – fra le più importanti dello sviluppo cognitivo – avviene in modo graduale a partire dai sei mesi di età. “La permanenza dell’oggetto emerge in questo gruppo di età [dai sei ai dodici mesi] quando il bambino inizia a cercare gli oggetti.
Un bambino di sei mesi andrà a cercare oggetti parzialmente nascosti mentre uno di nove cercherà anche quelli totalmente nascosti, e li scoprirà; questo include anche il coinvolgimento in giochi tipo ‘bubusettete’. L’ansia di separazione e quella dell’estraneo emergono in concomitanza con questa fase, mano a mano che il bambino capisce che ‘lontano dagli occhi’ non significa ‘lontano dal cuore’”. (Malik, F., & Marwaha, R. Cognitive development. StatPearls Publishing, 2023). Successivamente, fra i dodici e i diciotto mesi, “gli oggetti possono essere ritrovati anche dopo avere osservato una serie di spostamenti, perché di questo movimento può essere tenuta traccia in memoria” (art. cit.); infine, fra i diciotto mesi e i due anni, “la permanenza dell’oggetto è completamente instaurata, e le cose possono essere cercate anticipando dove potrebbero trovarsi anche senza averle viste arrivare lì” (art. cit.).
Sul piano dello sviluppo affettivo, la faccenda è invece un po’ più complicata. In qualità di esseri umani, e ancora prima di mammiferi, noi siamo intrinsecamente relazionali, tanto che la presenza dell’altro, soprattutto se si tratta di qualcuno di cui ci fidiamo, è la principale e più importante fonte di rassicurazione. Da piccoli, proprio perché ancora incapaci di accedere a un pensiero di tipo simbolico-astratto, e anche in ragione della condizione di generale immaturità psicofisica, è necessario che l’altro sia fisicamente presente presso di noi.
Mano a mano che cresciamo, impariamo a tollerare periodi sempre più prolungati di distacco dall’altro, sostenuti in questo da una progressivamente maggiore capacità di “cavarcela da soli” e anche dalla prerogativa di “rappresentare” l’altro nella nostra mente in modo da poterlo sentire dentro di noi anche quando non c’è. Quando diciamo a qualcuno che “lo pensiamo” stiamo parlando esattamente di questo.
Lo zampino della tecnologia
Questa competenza, fondamentale per divenire individui autonomi, realizzati e capaci di relazionarsi in maniera costruttiva con le altre persone, tende ad essere condizionata, e talvolta compromessa, dalla qualità delle relazioni primarie: più il legame di attaccamento con l’adulto di riferimento è “sicuro”, più sarà facile sviluppare fiducia nella presenza dell’altro, anche quando è lontano.
Ma c’è un’altra variabile, non di natura psicologica bensì tecnologica, che sta intervenendo in questo processo. Nel corso degli ultimi cento anni, l’avvento delle telecomunicazioni, dal telegrafo fino allo smartphone e ai social network, ci ha reso tutti (o quasi) molto più “reperibili” di quanto fossimo mai stati in passato.
L’espressione massima di questa tendenza è a mio parere costituita dalla geolocalizzazione, ovvero dalla possibilità di sapere dove una persona si trovi in qualsiasi momento. Le applicazioni che consentono di localizzare figli, amici, fidanzati o anche semplici conoscenti sono infatti sempre più diffuse: da Google Maps a WhatsApp, da Dov’è a mSpy, passando per i dispositivi di controllo parentale quali il Localizzatore Famiglia e Qustodio, la richiesta di queste funzionalità è nettamente in crescita.
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Come con tutte le innovazioni, le implicazioni sono più o meno buone a seconda dell’uso che se ne fa: la possibilità di sapere dove si trovi un figlio minorenne, non in maniera continuativa bensì in corrispondenza di spostamenti inusuali o “straordinari”, può di certo essere utile; quando però questa esigenza viene avvertita nell’ambito di relazioni paritetiche fra giovani o adulti, è d’uopo sospettare una difficoltà nel tollerare la lontananza fisica dell’altro, che può assumere la forma di un’ansia di separazione con relative istanze di controllo annesse. A sua volta, l’abitudine alla geolocalizzazione, soprattutto se acquisita in età evolutiva, può interferire con la capacità di sviluppare una buona “permanenza dell’oggetto”, rendendo le persone potenzialmente più dipendenti dalle applicazioni stesse.