Disavventure latine: Brasile. L’isola delle zanzare

Sembrava il Paradiso in Terra, Ilhabela, con la sua giungla incontaminata a soli 20 minuti di battello dalla costa continentale… Ecco, non lo era
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Ho sempre tifato contro il Brasile del ‘joga bonito’, che i miei amici adoravano, che tutti adorano, preferendo la classe più spigolosa di argentini e uruguaiani. Sentivo continuamente storie di turisti rapinati e malmenati a Rio. E c’era un chiassoso amico di famiglia con delle compilation insensate in cui musica cialtronesca come la Lambada si mischiava ai capolavori della bossanova, confondendomi e facendomi odiare tutto, senza distinzioni. Il portoghese dei brasiliani, poi, è quasi incomprensibile per via dei loro birignao. Insomma, io il Brasile ce l’avevo qui. Poi, per caso, dentro una libreria, ho ascoltato ‘Para Machucar meu coração’ di João Gilberto. Me ne sono innamorato. Sono partito da lì e ho capito che dovevo vederlo con i miei occhi, il Brasile. Ci sono andato. Avevo torto. Ve lo racconto qui.
Partito in autobus da Santos e diretto verso nord, alla città coloniale di Paraty, troppo lontana da raggiungere in una sola tappa, ho pensato che fosse una buona idea fermarmi a Ilhabela. Non lo era. Viene descritta da tutti come un Paradiso in Terra: un’isola cinta da scogliere alternate a spiagge bianche con all’interno un cuore fatto di giungla incontaminata e 365 cascate (già, “una per ogni giorno dell’anno”, e infatti te la pubblicizzano così, anche se ti viene voglia di andarle a contare tutte per vedere se è vero) a venti minuti di traghetto dalla terraferma. Una volta arrivato, Ilhabela mi ha ricordato l’idea dietro la serie tv The Good Place: ovvero, un gruppo di persone muore e gli viene detto che è finita in Paradiso. A prima vista lo sembra anche: splendide giornate, case grandi e comode, vicini adorabili, cibo squisito e possibilità infinite. E invece no: lentamente e inesorabilmente scopriranno di trovarsi all’Inferno.
© Roberto Scarcella
Stile coloniale
Borrachudos em todos os lugares
Ora non voglio arrivare a tanto, ma finire in un’isola tropicale, non vedere mai un raggio di sole, trovare la stanza ripetutamente allagata e ustionarsi irrimediabilmente il palato al primo piatto assaggiato (un pesce ripieno di una poltiglia contenente mango, banane, gamberi e – presumibilmente – lava) e, soprattutto, finire vittima dei temibili borrachudos non è proprio l’idea che avevo in mente quando mi immaginavo Ilhabela. I borrachudos, è bene dirlo, non sono una minacciosa gang locale assetata di sangue, ma forse sarebbe stato meglio. In effetti, assetati di sangue lo sono, essendo una specie endemica di zanzare che infesta l’isola e che ha due particolarità: non vola oltre il mezzo metro d’altezza e, se siete un umano, vi odia il triplo di una zanzara normale. Vuol dire che se avete con voi un bambino e volete andare in spiaggia dovete immergerlo alla Obelix in una vasca di liquido antizanzare. Se non avete bambini, vi basterà spruzzarlo sino alle ginocchia o poco più, a seconda di quanto siete alti (“Senza dimenticare nulla, nemmeno le piante dei piedi” avvertono alcune guide che ho letto ovviamente dopo, a danno avvenuto). L’incontro ha avuto luogo sulla spiaggia di Castelhanos in una giornata così plumbea che sembrava di stare in un quadro Sturm und Drang à la Caspar David Friedrich, non nella luminosa terra del samba.
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Altalena placida
Per arrivare alla spiaggia, che si trova sul lato dell’isola affacciato sull’Atlantico (e dove non esistono centri urbani), si può salire su un 4×4 che attraversa giungla e cascate. Ma solo al mattino. La strada è stretta e dissestata, quindi nelle prime ore della giornata si procede solo verso est, al pomeriggio verso ovest. E fare i furbi è impossibile: ci sono i controlli. La maggioranza in giornata rientra. Ma c’è chi si arrangia in strutture spartane in loco. Volendo, e pagando, c’è una terza via, la più ovvia su un’isola: il mare. Io – dotato di una discreta dose di sconsideratezza, ma privo di antizanzare – avevo pensato fosse una buona idea rimanere qualche ora extra e tornare in motoscafo. Neanche a dirlo: non lo era. Depositato sulla spiaggia dalla jeep sono subito andato nella zona più paludosa a farmi un giro. A un certo punto sento un forte prurito alle gambe. Mi gratto d’istinto senza nemmeno abbassare lo sguardo e sento il contatto delle dita con uno strano liquido più viscoso dell’acqua. Guardo ed è come se indossassi delle lunghe e sottilissime calze rosse. Invece è il mio sangue. Mi immergo nell’acqua, mi ripulisco e inizio a sentire un pizzicore diffuso che non mi abbandonerà per quasi una settimana. Il resto della giornata la passerò a ustionarmi la bocca al ristorante, cercare sollievo dalle punture e gironzolando per la spiaggia: c’è un vecchio sacco da boxe appeso a un albero, un bambino che gioca con una specie di liana e anche un telone su cui in serata, per chi resta e ha abbastanza antizanzare da sopravvivere, verrà proiettato un film.
© Roberto Scarcella
Vedendo la barca che mi assegnano per tornare, comincio a pensare che un naufragio sia più probabile di un rientro. E invece, sano, salvo e con il palato anestetizzato decido di saltare la cena e seguire la musica. M’imbatto in due gruppi. Il primo, che si esibisce sul palco di una piazza piena di locali di livello medio-alto, suona, a modo suo, cover internazionali: i Rem sembrano i Dire Straits, i Dire Straits sembrano gli U2, gli U2 sembrano i Depeche Mode e i Depeche Mode sembrano i Depeche Mode suonati male. Poco più in là, all’esterno di un bar scalcagnato il cui dehors sconfina in strada, dove passano le auto, un gruppo suona musica brasiliana. Prestano gli strumenti a chi li sa suonare. E a volte anche a chi no. Sembrano tutti felici e si sta così bene che dimentico per un po’ come mi hanno ridotto le gambe i borrachudos.
Piacevole, ozioso vagabondare: Ubatuba
© Roberto Scarcella
Milho do Bahía
Dovrei passare tre notti a Ilhabela, ma dopo due giornate di sfighe e cieli grigi me ne vado. Destinazione Ubatuba, per via del nome, che suona bene. Non so cosa aspettarmi, e forse è meglio così. C’è poco o niente per passare il tempo. Un luna park che non si capisce se sia aperto o chiuso, con una giostra con un’enorme scritta Trombini e un autoscontro che omaggia uno dei miti brasiliani, Ayrton Senna; un campo da tennis chiamato Wembley (sciocco e speranzoso, cercherò per un mese, in tutto il Brasile, un campo di calcio chiamato Wimbledon, senza trovarlo). Poco più in là, un orrendo monumento adagiato dove passa la linea del Tropico del Capricorno. Ubatuba è una città dai tempi talmente lenti che perfino un solo giorno pare infinito. Ma non è proprio noia, è più un piacevole, ozioso vagabondare. La sera tutto si anima con una festa patronale senza pretese e quindi bellissima. Ci sono i bambini, la musica, stand gastronomici ambulanti con vecchie insegne e il rassicurante sottofondo del chiacchiericcio da fiera paesana. Ci sarebbero anche le giostre, a pochi metri, ma, chissà perché, restano chiuse. Non ci sono i borrachudos. E tanto basta.