Hanno ucciso l’uomo adulto

La serie sugli 883, fra entusiasmo e nostalgia, ha raccolto applausi scroscianti di critica e pubblico. Ma davvero rimpiangiamo così tanto gli anni 90?

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione

Lo scorso 11 ottobre è stata lanciata la miniserie ‘Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883’ diretta da Sydney Sibilia che, fra entusiasmo e nostalgia, ha raccolto applausi scroscianti di critica e pubblico. Fra le schiere di cori osannanti, che celebrano la spremuta di anni Novanta ricordando la propria gioventù, un dubbio è lecito: ma ci facciamo davvero così schifo oggi che usiamo uno schermo tv per rivederci e sembrarci migliori?

Non voglio rivedere la mia giovinezza, ci sono già stato. E non era nemmeno tutto questo granché a dirla tutta: le insicurezze, i brufoli, le comitive extralarge in cui si doveva fare per forza tutti la stessa cosa, gli alcolici di bassa qualità, l’ansia per il compito in classe del lunedì mattina, i primi ingovernabili amori, la vita adulta dietro l’angolo che attira e insieme spaventa, la ribellione ai padri, i locali che puzzavano di fumo, i vestiti che puzzavano di fumo e tu che puzzavi di fumo anche se magari non avevi mai fatto nemmeno un tiro. E poi ancora i quadri 3D, il karaoke, il Tamagotchi, le musicassette, i cd e tanta, troppa musica brutta nelle orecchie, che arrivava perlopiù dalle radio, dalle tv, dagli amici. E se sbagliavi radio, o amico, eri fregato. Era un’età in cui ti piacevano le cose che ascoltavi, non ascoltavi le cose che ti piacevano. E c’è una bella differenza.

Non voglio tornare negli anni Novanta

Insomma, abbastanza da starne lontani, ora, dagli anni Novanta, presunta età dell’oro per chi ha smesso di scavare nei decenni successivi, quelli in cui – travolti da obblighi e incombenze che da ragazzi ignoravamo – siamo poi stati troppo impegnati a sopravvivere per restare curiosi, vedere cosa c’è di nuovo e di bello intorno in tempi che non sono più fatti per noi e paiono sfuggirci di mano. E invece i quarantenni di oggi sono andati in solluchero per l’ultimo viaggio nel tempo low cost chiamato Hanno ucciso l’Uomo ragno – La leggendaria storia degli 883. Una spremuta di anni Novanta e una celebrazione via fiction di un gruppo tutt’altro che leggendario, di sicuro popolare (e pure parecchio mediocre, a meno che non vogliamo considerare capolavori versi come “Jolly Blue, la sala giochi, Jolly Blue, piena di giochi”). Un gruppo che, certo, ha segnato un’epoca, ma – ciascuno a suo modo – anche i Cugini di campagna, Drive-In, le pennette alla vodka, la moviola di Aldo Biscardi, il bomber, l’eroina, la carestia delle patate, la caccia alle streghe e perfino il Terzo Reich hanno segnato un’epoca. Non per questo dobbiamo rimpiangerli.


Immagina tratta da YouTube
Nuzzolo e Giuggioli interpretano i protagonisti della serie

La verità è che se al posto della storia degli 883 avessero fatto quella di Sarabanda, di Non è la Rai, o dell’epoca d’oro delle discoteche (si rimpiangono talmente tanto certi momenti che molti ormai scambiano Gigi D’Agostino per Mozart) ci sarebbero comunque folle plaudenti sui social e perfino nella vita vera. Con Michael Jordan (che almeno lui leggendario lo è davvero), infatti, aveva funzionato. Come funzionano e hanno inevitabilmente successo tutti quei programmi che pescano a vario titolo dal cestone del passato. Perché la gente non ha davvero voglia di sapere come sono nati gli 883 o Art Attack, ma ha voglia di rivedersi riflessa dentro a un tempo riconoscibile e ancora pieno di possibilità che, inevitabilmente, con gli anni, si stanno restringendo.

Magari un tempo non felice come lo si ricorda, ma con cui almeno ha fatto in parte pace, un po’ perché il tempo modella i ricordi, rendendoli meno taglienti, e molto perché la nostalgia è come il fritto, rende più buono tutto (e, se si esagera, fa altrettanto male).

La sindrome dell’io c’ero

E quindi eccoci piombare addosso migliaia di recensioni non richieste di una piccola serie tv tutte sintetizzabili in tre parole: “Io c’ero”. E ok, dentro ci sono il Ciao, la Smemoranda, Deejay television, le sale giochi. E tutt’intorno c’eravamo noi. A distanza di anni ci siamo riconosciuti. Ci siamo contati. Reduci di noi stessi: chi con la calvizie, chi con la pancia, la cellulite, i lutti, i divorzi, le delusioni prese e date. E allora? Ma ci facciamo davvero così schifo allo specchio oggi che usiamo uno schermo tv per rimirarci e vederci, sembrarci migliori? E una volta che abbiamo fatto il censimento, noi ex ragazzi degli anni Novanta, che cambia? Sembra quando vai in vacanza all’estero e becchi un tuo connazionale a caso, di un paesino che nemmeno hai mai sentito, che non sapresti collocare sulla mappa e lui decide – senza che ci sia nessun altro legame – che siete amici per la pelle. Crescevamo nella stessa epoca, ascoltando la stessa musica dimenticabilissima eppure, a quanto pare, indimenticata. Abbracciamoci. Mah.

Bruno Lauzi, a chi gli chiedeva perché scrivesse canzoni tristi, rispondeva: “Perché quando sono felice esco”. C’è una verità dietro queste parole che va al di là di Lauzi, degli 883 e dello scrivere, ascoltare o celebrare canzoni. E ci riguarda tutti.

Nessun rimorso

Quando non usciamo più dal nostro guscio, quando smettiamo di cercare la felicità nell’inaspettato, nell’inesplorato (che sia la meta di un viaggio, un sentiero mai imboccato, un nuovo piatto, un nuovo cantante) rintanandoci nelle nostre certezze, nel nostro passato, ci stiamo facendo un dispetto. Certo, ci stiamo dando delle pacche sulle spalle da soli. E, nel caso dei riti collettivi, in compagnia. Che a volte serve, per carità. A volte ti salva. Ma se ti illudi che ti salvi sempre, c’è un problema. E alla fine nemmeno ti salva.

Umberto Eco invece diceva: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5’000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito…”. Verissimo. Ma se dai 15 ai 70 anni leggessimo continuamente e solo la Bibbia o I promessi sposi non funzionerebbe.

Allo stesso modo si può dire che chi si ostina a leggere lo stesso libro e ascoltare la stessa musica, provando a riesumare la propria adolescenza perduta, avrà vissuto solo una vita. E invece ne abbiamo più d’una: basta saperle riconoscere, attraversarle, abbinarle a ogni età senza rimpiangere continuamente quelle passate.

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