In nome del ‘compro metto butto’. Amen

Il nostro guardaroba, a livello sociale e ambientale, ci costa parecchio. Perché dovremmo vestirci in modo più sostenibile ce lo racconta eco.narratrice

Di Clara Storti

Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione

Nata negli anni Ottanta a Bolzano, laureata in Scienze della comunicazione a Padova, Elisa Nicoli è comunicatrice ambientale, divulgatrice e autrice di numerose pubblicazioni che trattano i temi di sostenibilità ed ecominimalismo, che è anche il titolo del suo ultimo libro (Gribaudo, 2023). Il suo lavoro non si ferma alla parola stampata, lo si può seguire su diversi canali social, come Instagram, TikTok e YouTube, dove diffonde il concetto ecominimalista, rispettoso di ambiente, lavoratori e animali. Con lei abbiamo parlato di abbigliamento, una delle fabbriche umane più inquinanti.

La vita di tutti i giorni – dal mattino quando mi siedo per la colazione fino al momento di coricarmi la sera – mi pone di fronte a scelte di vario tipo che mi permettono di affrontare la quotidianità, fatta di cibo, abiti, prodotti di igiene, oggetti e mobilità. Non per indifferenza, forse ogni tanto per svagatezza, mi rendo conto che non sempre rifletto circa il cibo che mangio, gli abiti che mi vestono e i prodotti di igiene (personale e casalinga) che uso. Diciamo che, spesso, sono le abitudini a indurre i miei comportamenti di consumatrice, alcuni virtuosi, altri decisamente meno. Senza dimenticare tutto quello che resta: i rifiuti. Tuttavia, sempre più sovente, mi pongo domande su come scegliere meglio, per me e la mia famiglia (con un bambino piccolo gli scrupoli si fan più grossi) cercando di essere meno invasiva e un po’ più consapevole di ciò che consumo. Insomma, per scriverlo senza troppi giri di parole, mi interrogo su come fare a condurre una vita il più possibile sostenibile. Di là dal mea culpa, mi sono proposta di pensarci e ripensarci su, per esempio, al momento di acquistare un prodotto. E non sempre ci riesco, risulterei un’impostora se scrivessi il contrario.

In ‘formato quotidiano’

Tempo fa, “scrollando” Instagram, mi sono imbattuta nel profilo di eco.narratrice, alias Elisa Nicoli, comunicatrice ambientale dal 2007 e divulgatrice ecominimalista di contenuti (non unicamente) digitali che, con una spigliata capacità comunicativa e narrativa, mostra un’altra maniera di vivere: proprio quel modo là, sensibile, consapevole e sostenibile, senza sconfinare nei massimi sistemi, ma ponendo questioni molto concrete.


foto © Elisa Nicoli
Comunicatrice ambientale dal 2007, ecominimalista ed eccellente narratrice

Nicoli svolge il suo lavoro con serietà giornalistica, senza scivolare nell’assolutismo e nel moralismo – percepito spesso come una fastidiosissima zanzara – e, soprattutto, con onestà: perché, lo sottolinea in più occasioni, “la perfezione non esiste e a volte si scende a compromessi”. Accordi con sé stessi e l’ambiente che van presi tenendo saldi alcuni punti cardinali: ridurre l’impatto in maniera sistemica, per esempio, pensando all’intero ciclo di vita di un prodotto, che deve essere sostenibile sui piani ambientale, sociale ed economico (dove è stato realizzato?, con che materiali?, sono riciclabili?, è duraturo?, i diritti umani e animali sono garantiti, rispettati?); dare perciò retta ai bisogni essenziali, consumando meno, che si traduce in meno rifiuti. Il tutto va fatto stare in equilibrio e non sempre è semplice, soprattutto quando ci sono aspetti cui è difficile rinunciare: come i viaggi. Quindi come scegliere anche per il proprio benessere? Filosofia di vita o mantra, per Nicoli un vero e proprio comandamento da seguire e ripetersi è: “Il prodotto più sostenibile è quello che non si compera”.

Dalla testa ai piedi

Gli ambiti che coinvolgono la sostenibilità, mi ripeto, sono tanti e rispondono in parte a bisogni primari, ma che, nel paradigma capitalistico di produzione (e consumo) senza fine, sconfinano nell’eccesso. Spesso difatti confondiamo queste necessità con i bisogni indotti da quella stessa sovrastruttura che genera una consuetudine bulimica al consumo, facendoci diventare come Jérôme e Sylvie, protagonisti di Le cose di Georges Perec. Uno di questi settori, per l’appunto, è l’abbigliamento, soprattutto nella sua declinazione più disastrosa il fast fashion, di cui negli ultimi anni se ne leggono e sentono di cotte e di crude, tanto da essere sotto la lente della politica in diversi Stati. La produzione tessile costa cospicue quantità di risorse (dall’acqua all’energia alle materie prime), sfruttando ambiente e persone, contribuendo (non si anticipa nulla di nuovo) alla crisi climatica. Del tema, ne abbiamo discusso con Nicoli (sul suo sito www.elisanicoli.it, si legge una biografia completa per sapere bene chi è e che cosa fa).

Elisa, che cosa l’ha spinta sulla via dell’ecominimalismo?

Una mia follower un giorno mi ha scritto “non buttare nulla è diverso da non avere nulla da buttare”. Prima non buttavo nulla per sensi di colpa. Poi ho capito che non era la strada giusta e ho cominciato a percorrere la strada dell’ecominimalismo. E il mio benessere è aumentato enormemente.

Arrivando subito al dunque: perché l’industria tessile è così problematica per l’ambiente?

L’industria tessile è un problema innanzitutto sociale. E secondariamente ambientale. Abbiamo delocalizzato quasi tutte le nostre produzioni di abbigliamento nel Sud globale, in Paesi come il Bangladesh, dove non esistono diritti sindacali, né regolamentazioni severe per il rispetto dell’ambiente. E le conseguenze sono anche un inquinamento ambientale che crea enormi problemi di salute alle persone locali.

Ciò, nonostante alcuni marchi (anche del cosiddetto fast fashion) si impegnino a proporre linee etiche, riempiendosi la bocca con la parola sostenibilità. Ci si può fidare?

Il problema è che in una produzione tessile globalizzata è estremamente difficile tenere tutto sotto controllo. Perché è possibile produrre in una fabbrica dove si fanno degli audit con regolarità, poi però c’è un così radicato sistema di subappalti che sfugge anche alle migliori intenzioni.

In sé la definizione “moda sostenibile” non ci mette di fronte a un paradosso? Come acquistare abbigliamento ecologicamente non riprovevole?

La moda può essere sostenibile, ma non ce la possiamo aspettare dalle multinazionali. Sicuramente non quelle del fast fashion. La moda davvero sostenibile è quella di piccola scala, possibilmente artigianale, possibilmente italiana o europea, dove si sa esattamente chi realizza tutte le fasi di lavorazione e a partire da tessuti a basso impatto. Per riconoscere chi lavora così occorre cercare informazioni sulla sua trasparenza. Chi non ha nulla da nascondere indica con precisione dove sono state fatte tutte le fasi di lavorazione, quali sono i tessuti scelti e perché, quale sarà il fine vita del prodotto.

A proposito di tessuti, come districarsi nella scelta?

Il tema è estremamente complesso, perché i tessuti migliori sono lino, canapa e ortica, ma al momento sono ancora tanto lontani dalle nostre abitudini di abbigliamento. Non stanno aderenti, sono piuttosto rigidi, vanno stirati spesso… Un’ottima idea è il Tencel, un tessuto artificiale ottenuto da materia prima vegetale, creato in un circuito chiuso, con riciclo della maggioranza delle sostanze chimiche usate per la sua fabbricazione. Il cotone, invece, è purtroppo insostenibile, anche se si cerca di limitare il suo impatto con quello organico. A ogni modo le sperimentazioni sono tante e si producono sempre nuovi tessuti, anche in materiale di recupero.
Il cotone riciclato ad esempio potrebbe essere un’opzione, ma solo se riciclato localmente, altrimenti siamo punto e a capo con l’impatto ambientale e sociale nel Sud globale. Infine i tessuti più sostenibili sono quelli di recupero o i fondi di magazzino. Ma la scelta più sostenibile di tutte è l’usato.

Da oltre sei mesi è diventata madre, trascorso questo tempo, secondo la sua esperienza, è possibile continuare a essere sostenibili? Soprattutto pensando a un frangente in cui ci viene proposta ogni sorta di oggetto di cui sembra non si possa fare a meno per crescere e accudire un figlio…

Non ho praticamente comprato nulla di nuovo per mio figlio. Tutto prestato, regalato o qualche cosa comprata usata. Dobbiamo sdoganare l’usato per i nostri figli. E anche il non comprare cose superflue, che purtroppo il marketing incredibile che fa leva sul senso di perenne inadeguatezza delle madri ci spingerebbe a fare… cosa ci serve davvero molto spesso lo capiamo col senno di poi. Io sto vivendo di rendita e man mano che mi serve davvero qualcosa che non possiedo cerco di comprarlo usato (o nuovo), purché sia molto durevole ed evolutivo.

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