Disavventure latine. Ecuador: Guayaquil, Guayakill

Terza tappa nella 24esima città più pericolosa al mondo: il coprifuoco inizia all’una e io ho pensato bene di perdere tempo a zonzo…

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Mi avevano detto che non c’era niente da vedere, che era brutto, sporco e cattivo. Che si mangiava male e beveva peggio. Che mi sarebbe costato troppo e mi avrebbe dato indietro poco. Che a un certo punto mi sarei chiesto – arrabbiato con me stesso – perché non il Brasile, le Canarie, l’Appenzello Interno. O il Molise. E che se volevo rischiare la pelle potevo almeno evitarmi un volo di dodici ore, visto che ci si può far ammazzare molto più vicino, se proprio ci tieni. Mi avevano detto che non si poteva uscire la sera, e forse nemmeno di giorno, che non si poteva prendere un autobus né entrare allo stadio. Così sono andato a vedere davvero com’è, l’Ecuador: senza ignorare i pericoli (che ci sono, eccome), ma abbracciando – ricambiato – tutto il resto. Ne è valsa la pena. Ve lo racconto qui.

Sto tornando da una partita di calcio iniziata di sera e finita che è quasi notte in una città in cui la notte è stata cancellata per decreto dal coprifuoco: troppa violenza, troppe gang che agiscono nel buio per contendersi strade, denaro e potere, troppi morti ammazzati per stare in giro, per non essere il prossimo a finire sul giornale e al cimitero. Il coprifuoco inizia all’una e io ho pensato bene di perdere tempo a zonzo per lo stadio. Ma se dentro sei (quasi) al sicuro, fuori iniziano i guai. E fuori prima o poi ci devi andare.

Mi ritrovo così a camminare su un largo spartitraffico che divide due strade ad alto scorrimento di Guayaquil, la 24esima città più pericolosa del mondo, mentre cerco di tornare da Juan, il tassista chiacchierone che all’andata mi ha lasciato a 1’250 metri esatti dallo stadio, dicendo che non poteva andare oltre (nonostante altri taxi lo facessero). Mi sta aspettando lì. Solo che prima, all’andata, c’erano migliaia di persone attorno a me e ora praticamente nessuno.


© R.S.
La sicurezza per le strade

Veloce, ma non troppo

Per l’andatura – esagerando – mi ispiro a quel che veniva consigliato ai sarajevesi quando erano sotto il tiro dei cecchini durante l’assedio della città da parte dei serbi. “Se cammini troppo lentamente sembra che li sfidi e ti sparano, se corri capiscono che hai paura e ti sparano. Mantieni un’andatura veloce, ma non troppo”. So che non sono nei Balcani degli anni Novanta e che non ci sono cecchini appostati, ma armi in giro ce ne sono fin troppe e così applico questa tattica con la faccia – o almeno così mi illudo – di uno che sa dove sta andando.

In fondo alla strada c’è Juan, con la sua commovente e pericolosa storia di tassista e aspirante avvocato che di giorno si collega online, mentre lavora (e quindi mentre guida), per seguire le videolezioni dell’università nella speranza di cambiare vita. Sembra di essere un po’ su un’auto di quei film distopici in cui il caos è imminente (nel libro ‘Galápagos’, Kurt Vonnegut descrive l’inizio della fine della razza umana così come la conosciamo, raccontando proprio una Guayaquil fuori controllo) e un po’ comparse di un ‘Taxi Driver’ in salsa tropicale.

Per capirci, ecco alcuni titoli dei giornali di quei giorni: “Venganza se escribe con plomo” (La vendetta si scrive con il piombo). O ancora: “Pan con cola y puñaladas”. Nei quattro giorni passati a Guayaquil è stato trovato un cadavere a pezzi in una valigia abbandonata in un canale di scolo; è stato freddato un membro di una gang durante una partita di calcetto in cui tra i compagni di squadra c’era un poliziotto; un commando ha cercato di uccidere il neoeletto sindaco di Durán, la città gemella di Guayaquil dall’altro lato del fiume Guayas: il sindaco si è salvato, ma sono morti due agenti della scorta e un uomo, colpito da un proiettile vagante, che stava consegnando il latte alla guida di un furgone.


© R.S.
‘Non ricordo ciò che è successo’

Sulla teleferica che collega Guayaquil e Durán conosco Blanca, una simpatica signora in là con gli anni. Mi ha squadrato sulla banchina, dove tutti squadrano tutti, perché è un attimo salire su una cabina con la persona sbagliata. Alla fine entriamo io, lei e una coppia di giovanissimi fidanzatini. In quei quindici minuti passati sospesi sopra al fiume Guayas, Blanca prima mi consiglia di visitare Durán, poi di lasciar perdere, poi di spingermi almeno fino a un punto panoramico poco più avanti della teleferica, poi di lasciar perdere, o almeno oltre il molo per fare una foto, e infine di lasciar perdere: troppo rischioso, dice. Ha i parenti a New York, ma non va a trovarli “perché – dice – è pericolosa”.

Finché c’è luce

Visto che in hotel provano a terrorizzarmi dicendo che non posso muovermi a più di un isolato in nessuna direzione, perché – solito ritornello – “è troppo pericoloso”, mi affido a qualcuno del posto. Camminare per la città con uno che sa dove mettere i piedi mi sembra un buon modo per tastare il terreno e poi ampliare – eventualmente – il mio raggio d’azione.

Incontro la mia guida, Javeth, al Parco delle Iguane (un esotico spazio verde con un centinaio di esemplari, cuccioli compresi, di una mite razza autoctona che vive solo lì): mi fa capire che potrei spingermi oltre – ma non troppo – anche da solo e che il lungofiume, il Malecón 2000, non è pericoloso finché c’è luce. Da lì si può arrivare fino al quartiere più protetto di Puerto Santa Ana (pieno di grattacieli, guardie private e locali per turisti ed ecuadoriani con i soldi) e al faro di Las Peñas, un dedalo di stradine e scalette che sembra fatto apposta per farti perdere o rapinare. O entrambe le cose.


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Un’iguana del Parco Seminario

Finisco con l’empatizzare con Guayaquil, o Guayakill, come trovo scritto con lo spray nero sul muro di una banca. E faccio in tempo a vedere anche una manifestazione contro la violenza, organizzata da poliziotti in pensione, piena di facce talmente stanche da non apparire nemmeno più arrabbiate.

Degni di García Marquez

Guayaquil ha due statue particolari, una in pieno centro dedicata a un venditore di biglietti della lotteria, e un’altra, sul lungomare, dedicata a un fumetto ormai centenario, Juan Pueblo, un ragazzo povero delle periferie con un cappello di carta in testa che rappresenta lo spirito della città e la voglia di vivere nonostante tutto. Davanti ad altre statue più anonime, simili a quelle tutte uguali che ogni città mette in piedi per celebrare sé stessa, Javeth mi ha invece raccontato la storia di come Guayaquil ha raggiunto l’indipendenza il 9 ottobre 1820.


© R.S.
La statua del fumetto centenario Juan Pueblo sul Malecón 2000

Troppo pochi, troppo poco armati e troppo deboli per sconfiggere l’esercito spagnolo, gli ecuadoriani s’inventarono un sotterfugio che sembra preso in prestito da una pagina di Gabriel García Marquez, anche se allora i suoi libri non c’erano, visto che nacque 107 anni più tardi. Usando come pretesto le nozze della figlia quindicenne di un potente del posto, i rivoltosi convinsero gli spagnoli a partecipare ai festeggiamenti, li fecero ubriacare tutti con una birra ad alta gradazione alcolica, sottrassero loro le armi e poi li circondarono, costringendoli ad arrendersi. Meno di due anni dopo tutto l’Ecuador era un Paese libero.
Parola di Javeth.

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