Il popolo degli alberi
Nessuna forma di vita può sussistere senza, per questo la morte di un albero è sempre una faccenda personale, qualcosa che ci riguarda intimamente
Di Mariella Dal Farra
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, inserto allegato a laRegione
Prima della tempesta Ciaran, che nei giorni scorsi ha flagellato mezza Europa con danni impressionanti a persone e cose e la violentissima grandinata che ha messo in ginocchio parte del Locarnese; il 25 luglio scorso, dopo una notte caratterizzata da violente raffiche di pioggia, enormi chicchi di grandine e un vento che superava i 100 km/h, la città di Milano si è risvegliata in uno scenario da Armageddon. Tetti scoperchiati, strade allagate, circolazione interrotta e soprattutto alberi, grandi alberi divelti dal suolo come fossero fuscelli scaraventati sulle rotaie del tram (dopo averne tranciato i fili di collegamento), sopra cancellate sfondate dall’impatto, sulle auto in sosta… Particolarmente impressionante era osservare l’apparato radicale delle piante: un groviglio imponente di radici e terra che però non era valso a tenerli aggrappati alla vita, poiché quegli alberi, con ogni evidenza, erano morti. Ecco, è questo che arrivava più di ogni altra cosa, quegli alberi non erano solo caduti, erano proprio dei “caduti”: vittime civili della guerra climatica che abbiamo ingaggiato contro il nostro stesso pianeta. Sto esagerando? Non lo so, fatto sta che quegli alberi erano vivi, alcuni da più di cento anni, e quella notte la tempesta li ha uccisi.
Non è la prima volta che la vista di alberi abbattuti mi suscita questo tipo di emozione. Cinque anni fa, nel Triveneto, la tempesta Vaia aveva raso al suolo in pochi giorni 41mila ettari di bosco, qualcosa come 14 milioni di alberi. Le immagini erano impressionanti: era successo nell’ottobre del 2018; io ci sono passata l’estate successiva e la sensazione era ancora quella di attraversare un campo di battaglia. Si tratta di un’equazione simbolica? In fondo, nessuna forma di vita animale può sussistere senza gli alberi: se loro muoiono, noi ci estinguiamo. È qualcosa che sappiamo bene a livello logico e razionale, ma che comprendiamo anche in forma pre-logica e inconscia: accanto all’albero materiale, la pianta perenne legnosa con il fusto e la chioma, c’è sempre stato quello immateriale, ovvero l’albero come simbolo, o meglio come archetipo (che, nell’accezione junghiana, è un simbolo universale). Come tale, lo ritroviamo in tutte le mitologie escogitate dall’inconscio collettivo nel corso del tempo, a partire dall’albero cosmico della mitologia scandinava: lo Yggdrasill, che sorregge con i suoi rami i “nove mondi”. In questa dimensione culturale, l’albero cosmico è identificato con un frassino (oppure un tasso o una quercia, secondo altre interpretazioni), mentre in ambito islamico lo stesso simbolo assume la forma di un ulivo; di una betulla o di un larice in Siberia, del Ficus Religiosa in India.
Fra terra e cielo
L’albero cosmico è denominato anche albero del mondo perché è stato immaginato come l’asse portante dell’universo (Axis Mundi): le radici che affondano nella terra e i rami che toccano il cielo mettono in comunicazione, attraverso il tronco, il mondo degli inferi, quello degli umani e quello degli dèi. Nella mitologia ungherese, questi tre mondi sono definiti rispettivamente come “Sotterraneo”, “di Mezzo” e “Superiore”; presso i Maya, l’albero collocato al centro dell’universo è la ceiba, e svolge una funzione del tutto identica a quella descritta dalla tradizione ugrica. Incidentalmente, con riferimento alla sua funzione di “tramite” ,notiamo come estratti di ceiba, nelle varietà pentandra, insignis e speciosa, siano fra gli ingredienti dell’ayahuasca: l’infuso allucinogeno preparato dagli sciamani di alcune popolazioni dell’Amazzonia per scopi rituali e terapeutici. Ed è proprio nella foresta pluviale amazzonica che gli alberi esprimono nel modo più spettacolare il loro ruolo di collegamento fra la terra e il cielo attraverso il ciclo dell’acqua che qui, in ragione di variabili connesse alla temperatura, alla quantità di radiazione solare incidente e alla copertura fogliare, viene espletato per “evapotraspirazione”.
A differenza di quanto avviene ad altre latitudini o nel contesto di altri ecosistemi, infatti, gli alberi dell’Amazzonia, spingendo le radici fino a sessanta metri di profondità, assorbono direttamente l’acqua dal suolo e la rilasciano nell’atmosfera attraverso la traspirazione. Si calcola che un albero con una chioma di venti metri quadrati possa rilasciare fino a mille litri di acqua al giorno, dando origine a enormi masse di vapore acqueo che si spostano sul continente sudamericano a decine di metri di altezza. Sono i cosiddetti “fiumi volanti”: corsi d’acqua nebulizzata che scorrono in cielo invece che in terra, spettacolarmente immortalati da Sebastião Salgado in un volume dedicato (Amazônia, 2021; vedi box a destra, ndr). Restituita al suolo sotto forma di pioggia, l’acqua distillata dagli alberi dell’Amazzonia contribuisce in misura sostanziale all’equilibrio idrico del pianeta.
Tra religione e psiche
L’albero del mondo è anche, probabilmente, l’albero della vita, che la Bibbia colloca al centro del Giardino dell’Eden, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male (che porta in sé la cognizione della morte). In questa declinazione, l’albero viene a rappresentare il principio vitale, “la crescita, […] l’estrinsecarsi della forma in senso fisico e spirituale, lo sviluppo” (si veda D. Verardi, L’albero filosofico. C.G. Jung e il simbolismo alchemico rinascimentale, Psychofenia, 2009). Ritroviamo l’eco di questo processo di nascita e rinnovamento nell’albero di Natale, in quello genealogico, nella croce cristiana. Anche l’albero della vita della Cabala con le sue dieci sephirot, che però attinge a una tradizione culturale diversa (comparve soltanto nel III secolo a opera delle scuole rabbiniche), sembra alludere all’atto della creazione: sia dell’universo (macrocosmo) che dell’essere umano (microcosmo). Si potrebbe continuare così molto a lungo: gli archetipi sono pervasivi, rimbalzano da una società a un’altra, da un’epoca a quella successiva, e di certo seguirne le trasformazioni, o i “travestimenti”, è sempre affascinante. Ma non si tratta di un gioco fine a se stesso perché i simboli non sono materia inerte, bensì viva ed attiva in ciascuno di noi, singolarmente e pure collettivamente. Ce lo ha spiegato una volta per tutte C.G. Jung (1875-1961), fondatore della psicologia analitica, che al tema dell’albero ha dedicato un saggio (L’albero filosofico apparso nel 1945).
Il nostro albero interiore
Nello svolgimento della pratica terapeutica, Jung aveva notato come nei disegni di alcuni pazienti comparisse l’immagine dell’albero. Esplorandone il significato inconscio attraverso la tecnica delle libere associazioni, egli evidenziò similitudini e corrispondenze con sistemi simbolici appartenenti a “quei periodi della storia dell’umanità in cui non v’era ancora alcun ostacolo alla formazione dei simboli” perché “la critica della coscienza non inibiva ancora la formazione di visioni” (op. cit.). Jung mette quindi in relazione le produzioni spontanee dei pazienti, nelle diverse fasi della terapia, con le descrizioni dell’arbor philosophica degli alchimisti medioevali, riscontrandovi significati pressoché identici: di nuovo, l’albero rimanda al processo di crescita e di sviluppo, realizzato attraverso l’integrazione degli aspetti istintuali e originari del sé (il “sottosuolo”, le radici) con quelli più sublimati e “aerei”. Poiché il nucleo simbolico è quello della crescita, l’albero si caratterizza inoltre come “materno” in quanto protegge, sostiene, cura… di qui, probabilmente, il comparire del simbolo nei disegni, e talvolta nei sogni, dei pazienti in terapia. Le forme di vita vegetale sono mediamente più longeve di quelle animali; non potendosi spostare dal luogo in cui nascono, hanno sviluppato una maggiore capacità di adattamento ai fattori ambientali, rispetto ai quali tendono inoltre a essere più resistenti. Ci soffermiamo a riflettere sulla loro enorme potenza generativa solo quando ci accorgiamo della velocità con cui si riappropriano del giardino se non facciamo manutenzione, o inciampando nel marciapiede sollevato dalle radici del platano che ci cresce sopra (e sotto). Sono gli unici organismi capaci di attingere a fonti di energia inorganica (la luce solare) e convertirla in energia chimica per alimentare i processi metabolici; per questa loro prerogativa, le piante hanno preceduto la comparsa degli animali e ne hanno reso possibile l’avvento. Noi respiriamo l’ossigeno che loro producono e questo legame indissolubile è depositato nella parte più antica della nostra mente, anche se non sappiamo verbalizzarlo adeguatamente. Per questo la morte di un albero è sempre una faccenda personale, qualcosa che ci riguarda intimamente.
Dal mondo
I fiumi volanti di Salgado
Nel bel mezzo della foresta pluviale amazzonica s’erge un traliccio più alto della torre Eiffel: si chiama ATTO – Amazon Tall Tower Observatory, ed è attualmente la struttura più alta del Sud America. Completato nel 2015 grazie alla collaborazione fra il tedesco Max Planck Institute e il brasiliano National Institute for Amazon Research, ATTO è una stazione di ricerca scientifica che si propone di studiare la relazione fra la giungla e l’atmosfera che la circonda. Dalla vertiginosa postazione è per esempio possibile osservare in presa diretta la formazione dei fiumi volanti e il loro sinuoso dispiegarsi al di sopra della calotta verde della foresta.
ATTO – Amazon Tall Tower Observatory
Purtroppo, anche se comprensibilmente, l’accesso ad ATTO è riservato solo agli scienziati, ma c’è un altro modo attraverso cui è possibile afferrare, seppure fugacemente, questo maestoso fenomeno atmosferico. Sebastião Salgado, fotografo e umanista brasiliano, è stato cinquantotto volte in Amazzonia, ricavandone immagini spettacolari. Questo lavoro è confluito in un volume edito da Taschen (Amazônia, 2021), la cui uscita è stata accompagnata da una mostra itinerante ora visitabile a Milano, presso la Fabbrica del Vapore (fino al 19 novembre 2023).
Più di 200 immagini di grande formato, tutte in bianco e nero, immergono il visitatore nella foresta amazzonica e poi lo sollevano al di sopra di essa, mentre un sottofondo sonoro di acqua, vento, uccelli, scimmie, insetti, rane e voci umane – sapientemente orchestrati da Jean-Michel Jarre – rende l’illusione ancora più perfetta. Nel 1990, Salgado ha fondato insieme alla moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado l’Istituto Terra, attuando un’opera di riforestazione senza precedenti.