‘Come oppilare i fogazzaroidi’. Che cosa? Mah, boh…
Il mistero della scrittura passa anche dalla fantasia e dall’immaginazione. Perché non tutto quello che si scrive deve per forza di cose avere un senso…
Di Valerio Rosa
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
“Ebbene, in quell’occasione S.E. Marascianno ebbe a rilevare spiacevoli orrezioni, non dovute obliterazioni, svariate oscitanze. S.E. Marascianno dopo averla, come di dovere, sottoposta ad obiurgazione, redasse note caratteristiche negative nei suoi riguardi, ritenendo con ciò il caso oppilato. Si sbagliava, evidentemente. Ella, obnubilato da ingiustificato rancore e non volendo lasciare inulte le negative note caratteristiche, imparzialmente redatte da Chi agiva solamente in nome del Dovere e della Giustizia, ha mostrato un’iperbulìa di danneggiamento verso il suo Superiore, sino ad assumere la veste di un vero e proprio obrettatore”.
Andrea Camilleri, La concessione del telefono (Sellerio, 1998)
Avete letto un po’ quanto scritto da Camilleri qui sopra…? Tutto chiaro, no? O vi serve un dizionario? Ma sì, quel libro che raccoglie tutte le parole di una lingua, le dispone in ordine alfabetico e ne definisce il significato. Forse un po’ scucito, come racconto: una digressione dopo l’altra, un continuo saltare di palo in frasca che da abaco a “zuzzurellone” precisa, puntualizza, chiarisce. Pensare di non averne bisogno sarebbe da presuntuosi: si rischierebbe di non capire quello che succede e di passare per superficiali, come accadde a Luigi XIV la sera dell’assalto alla Bastiglia. “È una rivolta?” , domandò preoccupato al duca di Liancourt. “No, Sire. È una rivoluzione”, fu la risposta. Meglio, allora, avere un vocabolario a portata di mano: consultarlo significa gettare improvvise illuminazioni su piccole parti di un mondo che consente infinite chiavi di lettura. Compilarlo, documentando e spiegando decine di migliaia di lemmi, offre invece sensazioni che i comuni mortali possono solo immaginare: forse il lessicografo che abbia censito e allineato tutti i vocaboli di una lingua finisce per sentirsi come Dio, che crea le cose nominandole, o più modestamente come un sacerdote, un mistico o un filosofo che, illudendosi di saper dominare ogni fenomeno, sia in grado di dargli né più né meno del peso e del valore che merita, che è il modo migliore per non averne paura.
Tutto al contrario (o forse no)
Eppure il mondo, oltre che vasto e pieno di moltitudini, è anche fluido, mutevole, non più imprigionabile nelle rassicuranti formule in voga fino al Novecento, e una lingua, che ne insegue i cambiamenti quasi in tempo reale, è uno strumento in continua evoluzione, che non sta mai fermo. Un vocabolario che non ne prendesse atto sarebbe quel “maligno strumento letterario per impedire lo sviluppo di una lingua e per renderla dura e rigida”, di cui scrive Ambrose Bierce, classe 1842, ne Il dizionario del diavolo (oggi edito in italiano da vari editori). L’autore ridefinisce termini di uso corrente secondo il loro vero significato, modellato dagli effettivi comportamenti e dai reali sentimenti degli uomini. Se un comune dizionario dipinge un mondo ideale e ottimista, simile a quello che i sussidiari, i catechismi e i Manuali delle Giovani Marmotte offrono all’ingenuità dei bambini, l’anti-dizionario di Bierce sovverte questa funzione, fotografando le ipocrisie, le meschinità e le sciatterie in cui una società gretta e rassegnata annacqua, umilia e infine svuota i propri valori. La PACE, per esempio, è “un periodo di truffe compreso tra due periodi di guerra”. La POLITICA è un “conflitto di interessi mascherato da lotta di principi”, o anche la “conduzione di affari pubblici per un vantaggio privato”. L’ASSURDITÀ è una “dichiarazione o convinzione palesemente in contrasto con il proprio pensiero”, il PROSSIMO è “chi ci viene ordinato di amare come noi stessi, e che fa di tutto per farci disobbedire” e l’ENTUSIASMO un “disturbo della giovinezza, curabile con piccole dosi di pentimento associate ad applicazioni esterne di esperienza”. Inevitabile catalogare un’impresa del genere come lo sfogo di un CINICO, che altro non è che una “canaglia che a causa della sua vita difettosa vede le cose come sono, e non come dovrebbero essere”.
Le solite cose
Non meno guascona l’opzione di Gustave Flaubert, che nel Dizionario dei luoghi comuni (Adelphi, 1980) sbertuccia gli automatismi della conversazione salottiera, registrando l’uso corrente delle parole, che risultano immiserite, depotenziate, decaffeinate, buone per cavarsela in società senza dire nulla e senza dare il minimo fastidio. E così gli ITALIANI sono “tutti traditori, tutti musicisti”, l’AMBIZIONE è “sempre preceduta da folle, quando non è nobile” e, quanto al LIBERTINAGGIO, “lo si trova soltanto nelle grandi città”. E attenzione a dire di un libro che è BEN SCRITTO: si tratta di una “locuzione da portinai, per designare i romanzi d’appendice che li divertono”. Sulla stessa falsariga, ne Le sabbie immobili, edito da Il Mulino, Giuseppe Pontiggia disegna un amaro ritratto dell’Italia e della sua società letteraria. ADDETTI AI LAVORI è una “espressione tetra, burocratica, invernale, destinata abitualmente dai letterati ai loro simili”. RILEGGERE “si usa per i classici che si leggono per la prima volta”. KAFKIANO è “riservato d’ufficio alla burocrazia. Rivela ogni assenza di famigliarità con Kafka, come di ogni famigliarità con Platone l’aggettivo platonico, riservato all’amore in bianco e al risultato di zero a zero nel calcio”. DENSO “non si discute. Prosa densa. Allude probabilmente al rapporto tra la massa delle idee e il volume che occupano”. E il BAGNO NEL SOCIALE, a cui l’intellettuale progressista si dedica per smentire la propria lontananza da quelle classi popolari che pretende di rappresentare, è solo “scendere tra la folla dall’automobile, dalla portantina, dal palco, dal balcone. Dura pochi minuti”.
Qui serve qualcosa di nuovo…
E cosa fare se le parole conosciute si rivelano, per quanto numerose, insufficienti a sintetizzare e conglomerare le sfumature, le lievi imprecisioni, le deviazioni impreviste eppure possibili, che un’indomabile nevrosi impone all’acribia di uno scrittore coscienzioso? In questo caso se ne inventano di nuove, che qualche pio studioso, nemico del sonno, si incaricherà di inventariare. Nasce così il Gaddabolario. Duecentodiciannove parole dell’Ingegnere (Edizioni Carocci, 2022), tentativo di catalogare le pirotecnie lessicali con cui Carlo Emilio Gadda si vendicava dell’inestricabile complessità del mondo. Da CRIPTORUTTO a DOTTORONZOLO, da INCANTAGIONE a PISCIVÙLVULO, da SARDANAPALESCO a STRUGNOCCOLO, c’è da rimanerne stupefatti, strabiliati, sbalorditi, increduli, sorpresi, meravigliati, stupiti, sbigottiti, estasiati, attoniti, storditi e ammirati. E si inciampa pure in un riferimento svizzero, tratto da La meccanica: “Tutt’al più qualche signorina un po’ romantica e FOGAZZAROIDE, facile a sospirar de’ tramonti e proclive agli esercizî calligrafici a base di Pascoli e Chiesa di Polenta nell’album rilegato e dorato”: rimando, a dir poco denigratorio, alla ticinese Rosetta Colombi e ai suoi gusti letterari.
Con Gadda, insomma, un comune vocabolario potrebbe non bastare: anziché dannarsi l’anima e rischiare il mal di testa, conviene abbandonarsi alla musicalità della prosa e accontentarsi di intuirne il senso, facendo a meno di saggi critici, di guide alla lettura, alla fine persino del dizionario, che, in fondo, come scriveva – chissà quanto credendoci – Flaubert, “è fatto solo per gli ignoranti”.