Viaggio in Jugoslavia

Finire nella terra del Maresciallo Tito, per calcolo o per caso, può ancora accadere a oltre trent’anni dalla sua dolorosa e scomposta dissoluzione

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

A volte devi prendere un piccolo, ozioso battello o imboccare una strada secondaria che sembra sbagliata che ti dice che sei arrivato solo quando incontri un minareto distrutto dalla guerra e un cartello minaccioso che ti dice che non puoi entrare. Eppure devi entrare, se vuoi vederla. A volte servono un po’ di volontà, pazienza e fiato mentre guardi da sottinsù una scalinata, la volta dopo magari sono solo sei-sette gradini di un anonimo palazzo qualunque. Poi c’è la volta, nella periferia più abbandonata di Belgrado, che nemmeno impegnandoti sembra che vogliano fartela vedere, la Jugoslavia: un posto che ti ripetono tutti che non c’è più, quando viaggi per i Balcani, eppure presentissimo negli occhi e nei ricordi degli ex bambini nati e cresciuti all’ombra del Novecento. E anche in giro, a cercare bene.


© R. S.
Di tutto un po’…

Finire in Jugoslavia, per calcolo o per caso, può ancora accadere a oltre trent’anni dalla sua dolorosa e scomposta dissoluzione. Ma questo non vuole essere un manuale di storia che distribuisce patenti e colpe, né una guida esaustiva di città, musei e ristoranti imperdibili, piuttosto un viaggio parziale verso luoghi rimasti intoccati, riscoperti o minuziosamente ricreati, anche solo per il piacere di rivivere un tempo che sembrava più semplice anche se poi, magari, non lo era affatto. Gli anni di Tito, della stella rossa sulla bandiera, dell’estetica brutalista in cui il socialismo si faceva carne e cemento e dei poster minimalisti con colori acidi, che ti facevano subito capire che sì, c’erano i comunisti, ma erano comunisti a modo loro, con gusti loro, diversi dai sovietici.


© Monika Pavlović
Una delle stanze dello Yugodom (yugodom.com), nel centro di Belgrado. Ogni ambiente è arredato con pezzi originali degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.

Choc sensoriale

Questo viaggio in Jugoslavia è bene iniziarlo su un’isola, Brioni Maggiore, allontanandosi via mare da tutto quel bagaglio storico-estetico che rischia di appesantire e schiacciare le aspettative. Per arrivare nella più grande delle Isole Brioni bisogna prendere un traghetto da Fasana, pochi chilometri a nord di Pola, in Istria. Arrivare è uno choc sensoriale: ci sono rovine romane, alberi e scorci di verde che sembrano rubati alla campagna toscana e baie turchesi da cartoline caraibiche: si può passeggiare, noleggiare una bicicletta oppure uno di quei cart che si usano sui campi da golf. C’è anche una macchina parcheggiata in una specie di teca-garage: è la Cadillac di Tito, se vuoi, per 500 franchi puoi anche guidarla per una mezz’oretta per le strade di Brioni, uno dei posti preferiti dall’uomo che fece la Jugoslavia fino a incarnarla. A Brioni, Tito passava ogni anno settimane e mesi, a tal punto da avere tutto quel che gli serviva per guidare il Paese, come se fosse a Belgrado. Sull’isola, oltre alla Cadillac, sono rimasti alcuni animali esotici, figli dei regali di alcuni capi di Stato africani, che per non presentarsi a mani vuote portavano in omaggio zebre, elefanti e bufali. Oggi un’area di Brioni Maggiore è adibita a zoo ed è visitabile, come è visitabile la voliera di un altro animale indissolubilmente legato all’ex leader jugoslavo, il pappagallo Koki, un cacatua dal ciuffetto giallo che Tito regalò alla nipotina Sasha e che oggi è diventato il simbolo chiacchierone dell’isola.


© R. S.
Il pappagallo Koki, un cacatua dal ciuffetto giallo, è un regalò che Tito fece alla nipotina Sasha e che oggi è diventato il simbolo chiacchierone dell’isola.

‘Made in Jugo’

Lasciando la Croazia e andando a sud e poi verso l’interno, in Bosnia-Erzegovina, si può vedere invece il bunker antiatomico di Tito: arrivarci non è semplice, e per entrare bisogna prima mandare in anticipo una mail a chi gestisce la struttura. Ti danno appuntamento poco fuori da Konjic, una città – più o meno a metà strada tra Mostar e Sarajevo – ancora fortemente segnata dalla guerra degli anni Novanta, il bunker invece è perfettamente integro nonostante il primo ingresso sia una saracinesca di un box per auto. Dentro c’è il meglio della tecnologia jugoslava che fu: ogni cosa, dai filtri anti-atomici per l’aria alle lampadine fino alle viti è “Made in Jugo”. Tito non riuscì mai a vedere finita quella che è la terza opera più costosa della Jugoslavia (4,3 miliardi di franchi) dopo l’aeroporto militare di Bihac e il porto di Lora. Il bunker fu completato, con grande ritardo, solo nel 1979, pochi mesi prima della sua morte, sopraggiunta il 4 maggio 1980. La fortezza sotterranea è stata progettata per tenere in vita i suoi occupanti per ben sei mesi (spesso i bunker governativi del blocco occidentale non superavano la soglia dei trenta giorni). La manovalanza, che arrivava da ogni parte del Paese, si narra venisse portata qui bendata, per non capire dove si trovasse esattamente. La mitologia jugoslava e comunista in generale si basa su questi segreti. Ma nessuno ha mai smentito questa versione, che ancora circola. E la popolazione civile ha scoperto il bunker solo nel 1990, nel caos della Federazione ormai implosa.
Oggi il bunker resta un esempio di luogo cristallizzato nel tempo, un museo della nomenklatura jugoslava, con camere spartane per tutti fuorché per Tito e la moglie Jovanka, tra i pochi ad avere a disposizione anche un televisore. E poi tanti telefoni rossi, un’infinità di ritratti del leader appesi ai muri insieme a foto – dozzinali – di luoghi aperti (mare, montagna, qualsiasi cosa potesse tenere lontana la claustrofobia del posto). E una stanza dominata da un grande Risiko dell’Europa con pedine non dissimili da quelle del gioco in scatola: solo molto più grosse. Infine un piccolo ufficio che era la vera frontiera di quel bunker, dove un soldato metteva un timbro a tutto quel che usciva o entrava. Sopra la sua testa, e degli altri 349 prescelti, otto aperture nella roccia su cui potevano posarsi otto elicotteri il giorno in cui si fosse deciso di sfidare gli effetti dell’atomica mai arrivata.


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Tito con un cammello regalatogli probabilmente da uno dei tanti capi di stato che gli facevano visita.

Porta temporale

Arrivati a Sarajevo – museo a cielo aperto del massacro seguito alla fine della Jugoslavia – c’è il Caffè Tito, dove vengono esposti oggetti e armi d’epoca: ha un’atmosfera meno datata e più glamour, nonostante i cimeli e il posto in cui si trova, a due passi da “Sniper Alley”, lo stradone su cui si accanivano i cecchini durante l’assedio della città. Quella zona, piena di palazzoni d’epoca comunista, rimanda immediatamente agli anni della Jugoslavia. Poco più in là c’è il centro sportivo Skenderija, creato ex novo per le Olimpiadi invernali del 1984 e – sebbene fatiscente – ancora utilizzato per ospitare i grandi eventi, comprese le partite della Nazionale di basket. L’ingresso sembra una porta temporale, tu entri e il XXI secolo resta fuori. Sulle alture cittadine si trova invece quel che resta degli impianti sciistici, il più famoso è la pista di bob, ormai diventata una tela per writers e un’attrazione turistica. Lì puoi vedere la grandeur sarajevese e jugoslava dell’epoca sbriciolarsi letteralmente: da centro del mondo e novella Olimpia a luogo dimenticato, mangiato prima dalla guerra e poi dalla natura, che si riprende i suoi spazi. Dimenticate e molto jugoslave sembrano quasi tutte le panetterie di provincia che s’incontrano andando verso Tuzla e poi in Serbia, con dentro signore anziane che sembrano sempre la stessa signora venuta dal passato.
A Belgrado si concentrano gli hotel che hanno fatto la storia della città e del Paese: il Moskva, sebbene costruito nel 1908 (in stile russo), è diventato uno dei simboli del potere, rientrando tra gli edifici direttamente controllati dallo Stato nel 1968; ancor più iconico, con quell’aria dimessa e il cemento geometrico ovunque, è l’Hotel Jugoslavija, ormai l’ombra di sé stesso, con recensioni tragicomiche su Tripadvisor e dintorni. Sta a due passi dal quartiere bohémien di Zemun e a uno dal Danubio, eppure sembra un oggetto ingombrante e dimenticato, fuori tempo massimo.


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Fotografie di Tito con Fidel Castro appese al Kafana Sfrj di Belgrado.

‘Yugodom’

Per chi vuole soggiornare a Belgrado in un’atmosfera decadente e autentica (magari portandosi pure via un pezzo, a pagamento s’intende) deve invece andare nei dintorni di Skadarlija, un pezzo di Montmartre scivolato nei Balcani. Lì c’è quello che i suoi ideatori chiamano “stay over museum”, ovvero un museo dove si può dormire: si chiama Yugodom e ha tre stanze, ognuna arredata esattamente come si arredavano le case in Jugoslavia negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Ci sono orologi, lampadari e poster d’epoca, con i film che – almeno là – hanno segnato un’epoca. Nulla è lasciato al caso, tappezzeria compresa. E se c’è qualche difetto, meglio, sennò che casa jugoslava sarebbe?
A rendere l’esperienza ancor più immersiva c’è una playlist con musica d’epoca e soprattutto c’è il mobile all’ingresso dell’appartamento, una specie di espositore dove i proprietari lasciano oggetti d’epoca, ognuno con il cartellino del prezzo attaccato. Sveglie, asciugacapelli, bicchieri, tazze, tovaglie, libri, cornici: tutto è in vendita. E per quel che non lo è, si può sempre provare a fare un’offerta. Da lì, se si vogliono fare altre compere, basta fare una passeggiata per finire da Smizla: una specie di paradiso del modernariato dove perdersi per ore: ci sono perfino i libri di scuola d’epoca e abbastanza per ricreare da zero un ambiente stile Yugodom.
A quel punto può anche venire fame: proseguendo la passeggiata si arriva a una lunga scalinata che ospita la Kafana Sfrj, vale a dire la trattoria della Jugoslavia di Tito: lì, come in molti altri locali del centro, si trova una cucina tipica fatta di ricette tradizionali, accompagnata da oggetti e soprammobili d’epoca. Mangi e Tito dal muro ti osserva, che ti faccia piacere o no. A seconda del tavolo in cui ti siedi, ti osserva anche Fidel Castro.


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Il Treno Blu di Tito è stato inaugurato nel 1946 e ha preso ufficialmente il nome (e il colore) nel 1956. Molti degli arredi interni riprendono il blu dell’esterno. Il 5 maggio 1980, il corpo senza vita di Tito fu trasportato via treno da Lubiana a Belgrado tra due ali di folla.

Il Treno Blu di Tito

L’esperienza si può completare in uno dei tanti musei sulla Jugoslavia (a Belgrado come a Zagabria, a Dubrovnik come a Ormoz, in Slovenia), ma è ancora meglio recarsi nello scalcagnato deposito dei treni alla periferia della capitale serba: lì c’è il Treno Blu di Tito, il convoglio blindato ed extralusso usato dal Maresciallo per spostarsi. Il biglietto non si può comprare sul posto, ma in un’altra stazione, non si sa bene quale, visto che ce ne sono due con lo stesso nome. Tutt’intorno solo sterpaglie e un branco di cani semi-randagi, ormai adottati da questi lavoratori del deposito che non si capisce bene che lavoro facciano, cosa ci sia da fare lì che giustifichi un qualche stipendio. Certo, ci sarebbe da visitare il treno, ma gli orari non sono chiari, la macchina va lasciata in uno spiazzo fangoso, il biglietto – se sei riuscito a farlo – non è detto che sia quello giusto, e la guida non è detto che parli inglese.
Va un po’ a fortuna, parecchio a caso. Mentre aspetti puoi farti venire il nervoso oppure prendertela comoda, annusare l’aria, come fanno i cani, vedere il tempo che scorre, come un paesaggio dal finestrino, come fanno loro: pura Jugoslavia.


© Monika Pavlović


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Un angolo cottura con tutto il necessario (d’epoca naturalmente).


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© Monika Pavlović
Spillette, una musicassetta e sveglie d’epoca, qui è come se il tempo si fosse fermato.


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La Cadillac del Maresciallo…

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